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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
20/03/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Voina
I Voina potrebbero essere definiti gli eredi di un gruppo come i Ministri, ma sono decisamente anche qualcosa di più, con i loro testi di una lucidità disarmante e canzoni che sono autentici inni transgenerazionali, fatti per urlarli sotto il palco ai concerti, ma anche per essere ascoltati in silenzio, meditando sulla triste condizione che riescono a descrivere. Abbiamo raggiunto la band al completo per una chiacchierata sulla loro ultima fatica, Kintsugi, e questo è il risultato.

Oltre ai Cara Calma, a raccogliere l’eredità ideale di un gruppo come i Ministri ci sono senza dubbio i Voina, anche se definirli semplicemente degli epigoni di Dragogna e soci sarebbe decisamente riduttivo. Ivo Bucci, Mattia De Iure, Domenico e Nicola Candeloro, non avrebbero dovuto fare un altro disco perché, come dicono sempre (e come spiegano anche in questa intervista) ogni disco per loro potrebbe essere l’ultimo.

Eppure sono già arrivati al quarto e Kintsugi, richiamo alla nobile arte giapponese di rimettere a posto gli oggetti rotti utilizzando l’oro per saldarne i pezzi, è insieme un quadro desolante (ma a suo modo anche ironico) della crisi culturale e sociale della provincia italiana, e un invito a non arrendersi, a vivere la vita nella sua dimensione intrinsecamente positiva.

Il tutto è declinato attraverso testi di una lucidità disarmante e canzoni che sono autentici inni transgenerazionali, fatti per urlarli sotto il palco ai concerti, ma anche per essere ascoltati in silenzio, meditando sulla triste condizione che riescono a descrivere.

A pochi giorni dall’inizio del tour italiano abbiamo raggiunto la band al completo, per una chiacchierata su questa loro ultima fatica e non solo.

 

 

Ciao ragazzi, innanzitutto complimenti per il disco, mi è piaciuto davvero molto! Nel comunicato stampa che lo accompagna avete scritto che per voi ogni disco nuovo rischia di essere l’ultimo: mi spiegate perché? In effetti sono passati esattamente quattro anni da Ipergigante e due dall'EP Yoga: cos'è successo in questo tempo? 

Ciao! Si, ogni disco rischia di essere l’ultimo perché crescendo il tempo da dedicare alla musica è sempre meno e gli sbattimenti pesano sempre un po’ di più. Fortunatamente abbiamo ancora voglia di dire qualcosa e continuiamo a divertirci facendolo. Quando smetterà di essere divertente e appagante credo smetteremo. Per quanto riguarda i tempi di realizzazione dei dischi credo che ci sia un’errata idea di quanto tempo ci voglia per produrre qualcosa di sensato. La musica post-internet ha costretto gli artisti ad essere iper-produttivi e l’iperproduttività spesso scarica di ispirazione. Preferiamo tirare fuori qualcosa quando abbiamo davvero necessità di farlo.

 

I testi sono particolarmente cupi, ci ho visto un ritratto lucidissimo e spietato della crisi, non solo economica, del nostro paese. Eppure, il titolo che avete scelto lascia intravedere barlumi di speranza. Voi che ne pensate? 

Il titolo in realtà è dedicato a noi stessi, a noi Voina che dopo dieci anni di una folle carriera siamo ancora qui a rimettere insieme i pezzi e ad andare avanti nonostante le crisi che colpiscono qualsiasi artista. La crudezza dei testi è invece proprio per cercare la sincerità che ci ha sempre contraddistinto. In ogni caso la speranza è reale solo se si è davvero franchi con se stessi.

 

A proposito del titolo: sapevate che era già stato utilizzato dai Death Cab for Cutie per uno dei loro ultimi album? 

Non ne avevamo idea, speriamo non ci denuncino.

 

Come è stato il processo di lavorazione dei pezzi? Che metodo avete seguito? 

Dopo il periodo del covid, in cui la scrittura dei brani era mutata a causa dell’impossibilità di riunirsi, volevamo scrivere un disco alla vecchia maniera. Come prima cosa ci siamo costruiti una nuova sala prove con le nostre mani, per avere un luogo dove partorire il disco. Poi abbiamo lavorato come si faceva una volta: scrivendo il disco mentre lo suonavamo.

 

“Maya”, la traccia di apertura, è anche una delle migliori, non solo del disco ma anche della vostra carriera, sia come forza d'urto che come melodia. Mi hanno molto colpito queste immagini da “tramonto dell'occidente” (per citare un libro scomodo) del testo, che si sposano molto bene con l'atmosfera rabbiosa e decadente della musica. Da dove avete preso l'idea? 

E’ un brano che parla della fine sicuramente, ma credo che cerchi di sottolineare più la sensazione della fine che non la fine stessa. Viviamo con la costante sensazione di essere al tramonto di molte cose importanti e usiamo questa cosa per comportarci in modo sconsiderato. Il testo dice “siamo noi i nostri cigni neri”, come se in fondo cercassimo da soli di sentirci in una sorta di apocalisse contemporanea  per toglierci delle responsabilità.

 

“Che vita di merda” è un singolo piuttosto atipico, secondo me: il ritmo è cadenzato e il ritornello non ha quell'esplosione anthemica di altri vostri brani. Come mai l’avete scelta come primo singolo? 

L’abbiamo scelta proprio perché era il brano più lontano da un’idea di singolo. E’ lento, pesante e sgraziato. E’ una manifestazione d’intenti. Non vogliamo sottostare alle necessità della discografia odierna.

 

Per quanto riguarda invece il testo, io ci ho visto dentro un po’ di ironia, nonostante la cupezza delle situazioni descritte: siete d'accordo? 

Assolutamente d’accordo. L’ironia è la salvezza dalle difficoltà. Urlare “che vita di merda” è liberatorio e divertente, ci unisce a tutti quelli che almeno una volta lo hanno pensato. Le difficoltà fanno parte della vita di tutti, cercare di trascenderle con l’ironia è il compito dell’essere umano.

 

Nella tracklist avete dato spazio anche a canzoni che potrebbero essere definite “ballate”, in cui viene fuori il vostro lato più riflessivo. Mi è piaciuta molto “Fortini” ma sicuramente è “Mal di gola”, totalmente acustica, quella più inusuale per il vostro genere.

“Fortini” è una tipologia di brano che abbiamo già proposto, uno stilema per raccontare qualcosa di emotivo e profondo. “Mal di gola” invece nasce come un brano tremendamente intimo e l’unico vestito che ci sembrava che calzasse bene era quello della semplicità assoluta. Una chitarra e una voce. Stop.

 

Ne “La pubblicità” fate un impietoso quadro della vita in provincia (con questa immagine folgorante di quei bar scialbi e anonimi che però hanno sempre un nome esotico ed evocativo) e allo stesso tempo c’è l’idea che le apparenze siano sempre ingannevoli: come stanno insieme questi due concetti?

Il brano è nato proprio sulla base di un bar realmente esistente a Lanciano, un bar che tra l’altro amiamo, che nonostante il nome esotico rappresenta proprio ciò che è un bar di provincia: piccolo, affollato e non particolarmente eccitante. In realtà la parte che noi preferiamo è proprio la sua cruda realtà, fatta di persone normali che fanno lavori normali e che vengono a scaricare tensioni normali in un bar normale. L’accento negativo è sulla parte scintillante che ognuno di noi cerca di vendere agli altri mentre è molto più interessante la nostra parte vera.

 

“Supermercati cinesi” è il mio pezzo preferito, assieme a “Maya”, ed è forse il modo migliore e anche inusuale per chiudere un disco, nel senso che l’avete fatto con uno dei brani più d'impatto. Anche il testo mi ha colpito molto e vorrei approfondire un po’ il discorso: da una parte avete assunto una voce narrante volutamente polemica, mettendovi nei panni dei soliti nostalgici dei “vecchi tempi”; dall'altra parte però, il quadro che descrivete è comunque ammantato di un certo squallore. L’impressione che ho avuto io, è che abbiate voluto puntare l'attenzione sul fatto che, come popolo, non siamo ancora maturi a sufficienza per affrontare certi cambiamenti. È così o c’è altro? 

In realtà i “bei tempi” citati da te fanno riferimento ad un’idea sbagliata di mondo che i vecchi ricordano con nostalgia. “Supermercati cinesi” parla soprattutto del nostro paese e delle contraddizioni che la pervadono. Stiamo per essere comprati dai cinesi ma non è detto che questo sia un male, visto e considerando quanto sia scarsi ad amministrare il nostro patrimonio.

 

Perdonate la banalità della domanda, ma siccome su Loudd non abbiamo mai parlato di voi: da dove nasce il nome Voina? 

Il nome viene da un gruppo artistico di dissidenti politici anti-Putin dei primi Duemila. In russo significa “guerra”.

 

Vivete sempre in Abruzzo o nel frattempo vi siete spostati? Com'è la vita musicale da quelle parti? C’è una scena interessante oppure è vero che al di fuori di Milano, Roma e Bologna in Italia si muove poco? Anni fa ero stato a Vasto per il Siren Festival e mi ero trovato davvero benissimo, purtroppo però ora non lo fanno più.

Dopo varie esperienze fuori da casa siamo tutti tornati a vivere a Lanciano. E’ la nostra casa. La dimensione della provincia è la nostra dimensione. La scena è interessante come in tutte le province, credo, ci sono sempre ragazzi che hanno cose da dire e che vogliono farlo attraverso la musica. La differenza è il megafono da utilizzare, venire da Milano o Roma, vivere lì probabilmente ti fa sentire al centro di quello che è il mondo musicale. Il vantaggio della provincia è sempre la fame che ti porta a dare un po’ di più rispetto agli altri.

 

A brevissimo partirete per un piccolo giro nei club: ci saranno altre date tra primavera ed estate? 

Sicuramente ci saranno altre date, soprattutto quest’estate, le stiamo chiudendo in questo periodo. Non ne saranno moltissime perché gli impegni della vita sono tanti ma cerchiamo sempre di ritagliare uno spazio per poter fare un po’ di casino su un palco.

 

Per finire, c’è qualcosa che non vi ho chiesto e che vorreste comunque dire? 

No.