I The Peawees, banda storica del garage rock (anche se, come vedremo nel corso dell’intervista, è un'etichetta che sta ormai stretta al combo spezzino) ha da poco pubblicato, a distanza di sei anni dal precedente, il long playing One ride per l’etichetta discografica Wild Honey Records.
L’occasione era quindi ghiotta per fare una chiacchierata con il leader storico del gruppo, Hervé Peroncini, sia sulla nuova produzione, sia, visto oramai il lungo cursus honorum del medesimo e dei The Peawees, sulla situazione del rock indipendente in Italia e Oltrealpe.
Ciao! Direi che per una volta possiamo non partire con la solita domanda di presentazione, visto l’oramai pluridecennale esistenza musicale della band. Inizierei subito con una domanda di natura “temporale”: come mai tutta questa lunga attesa dal precedente album? Di mezzo vi sono state sicuramente delle situazioni che hanno coinvolto l’intero pianeta (Covid in primis) ma ho letto anche di una serie di vicissitudini personali e cambi di formazione. Tutto questo come ha influito sul metodo compositivo.
Ciao! Beh, sì, la pandemia ha sicuramente influito sui tempi, ma anche sul risultato finale, nel senso che probabilmente, senza tutto quel periodo delirante, il disco suonerebbe diversamente. La verità è che, dopo l’uscita di Moving Target, abbiamo fatto tantissime date, durante le quali avevo scritto un po' di materiale nuovo, e nel 2019 avevamo già registrato due pezzi di One Ride con l’intenzione di far uscire il disco nel 2022. Poi è successo quel che è successo, con l’aggiunta di varie vicissitudini personali: io sono tornato a vivere a La Spezia nel 2021, dopo aver passato i due anni precedenti tra Milano e le Canarie, dove ho scritto gran parte del disco; Carlo si è trasferito a Berlino per esigenze personali e, di conseguenza, c’è stato questo cambio di formazione che ha ulteriormente rallentato le cose.
Il fatto è che, invece di entrare subito in studio dopo la fine della pandemia, abbiamo voluto fare un po' di date con Dario tra Italia, Svezia, Norvegia e Spagna, in primis perché ci mancava suonare dal vivo, e poi per amalgamare la nuova formazione, sia a livello musicale che personale. Quando abbiamo poi capito che tutto filava liscio, siamo entrati in studio.
Detto questo, al di là di tutto ciò che può rallentare il processo di realizzazione di un disco, io sono sempre dell’idea che, comunque vada, in studio devi entrarci quando hai le canzoni, e non perché devi avere un disco da buttare fuori. Ci sono momenti in cui hai qualcosa da dire, e momenti in cui non ce l’hai. Certe volte ci vogliono 2 anni, altre volte 5.
Il disco è stato anticipato dall’uscita di una serie di singoli “Banana Tree”, “Wolf”, “Plastic Bullets” e "Lost in the middle”, tutti brani poi presenti nell’album. Di tutti i singoli sopra citati, avete pubblicato come 7 pollici solo “Plastic Bullets”. C’è una ragione particolare per tale scelta (penso ad esempio alle cover di Dylan quale lati B)?
In realtà è uscito anche il singolo di “Banana Tree” per l’etichetta spagnola Folc Records con “Don’t Look Back” dei Remains come b-side. Non c’è stata una ragione particolare per la scelta di quei pezzi, da parte mia sarebbe andata bene qualunque canzone del disco, anche perché ad un certo punto sei talmente coinvolto che diventa complicato scegliere. Poi c’è stato un momento in cui ognuno aveva preferenze diverse quindi la faccenda si era fatta ancora più complicata! (ride, nds). Quindi alla fine abbiamo fatto scegliere alle etichette quali pezzi volessero pubblicare su 7”. Tornando indietro avrei voluto fare il 7” di “The Wolf” o di altri pezzi come “Spell on me” o “Before I die” che non sono usciti neanche come singoli. Ma non si può avere tutto!
Penso che nel tempo i Peawees abbiano avuto una evoluzione musicale molto significativa: oggi la vostra miscela musicale mi pare parta ancora da un approccio, per così dire, garage/power pop, passando tuttavia per sfumature soul, nonché per il recupero della tradizione rock anni '50-'60, riletta in chiave moderna. Cosa vi ha spinto a ciò?
Credo sia una propensione. Quando hai diciott'anni senti l’esigenza di voler far parte di qualcosa, e l’unica cosa che volevamo all’inizio era essere un gruppo punk e far parte della cosiddetta scena. E così è stato, ma questa voglia di appartenenza è scemata praticamente subito, e dopo il primo album abbiamo iniziato a cercare di capire quale fosse la nostra vera identità.
Io e Lalo, il nostro ex bassista, eravamo in fissa con le sonorità anni '50 e '60, ma eravamo troppo punk e musicalmente troppo scarsi per suonare come Little Richard, quindi provavamo a rifare canzoni come “Rip it up” alla nostra maniera, un po' sgangherata. Credo che quello sia stato l’inizio della nostra contaminazione, verso la fine degli anni '90.
L’avvicinamento al Rhythm & Blues, al Garage, al Soul e a tutte le derivazioni di base blues è qualcosa di inevitabile: nel momento in cui ti addentri in certi territori, vieni come risucchiato, e se la tua propensione ti porta in quella direzione, non ne esci più!
Siete un gruppo che forse possiede un maggior appeal estero che nazionale. Secondo voi esiste una ragione particolare? Dico questo anche sulla base del fatto che avendovi sentito a Libera la Festa, mi pare che la vostra proposta possa trovare anche un bacino di utenza “popular”, cosa ne pensate?
Di base credo che un certo tipo di punk di derivazione rock n roll non abbia mai attecchito in Italia come anche il punk, nel senso più vasto del termine, cantato in inglese. Ci sono delle nicchie solide ma rimangono comunque nicchie. Come Peawees ci riteniamo fortunati perché abbiamo un nostro seguito e dovunque suoniamo in Italia caschiamo quasi sempre in piedi. Ci sono paesi in cui siamo più apprezzati ma anche qui è ciclico e penso dipenda da fattori culturali. Nei primi anni duemila andavamo spesso in Germania dove avevamo un buon seguito, adesso il paese in cui abbiamo più riscontro è la Spagna ma si stanno aprendo anche altre strade quindi non c’è mai nulla di definitivo e questo è il bello!
Tornando alla vostra ultima produzione, l’ho trovato un disco aperto a un ventaglio di generi diversi sempre inseriti in un più ampio alveo rock, ma risulta evidente come, ad esempio, il riff diretto di “Banana Tree” o il power pop di “Drive”, si situino in un perimetro differente dalle cadenze della title track “One ride” o del college rock di “Spell On me” e pur tuttavia l’album mantiene una compattezza di insieme, come ci siete riusciti?
È per via della stessa ossessione che si ripete. È l’ossessione inconsapevole di un artista che crea un filo conduttore in tutto quello che fa. Non parlo di me ma in generale di qualsiasi forma d’arte, che sia musica, pittura, scrittura, etc., quando c’è una forte ossessione quella esce sempre fuori ed è quella che determina il marchio di fabbrica. Credo sia quello che tu chiami “compattezza d’insieme” pur essendoci stili e influenze diverse.
Sarà l’inizio col tremolo, ma per me uno dei pezzi migliori dell’album è “Plastic Bullets”, mi sembra che, per richiamare un gruppo che possa trovare conoscenza in tutti i lettori di Loudd, l’eco dei Ramones faccia capolino, forse per l’uso dei cori e contro cori, sbaglio?
Sì, su "Plastic Bullets" sono venuti a galla i Ramones di "Chainsaw", ma forse anche un po' i Buzzcocks e i Cock Sparrer. È l’unica canzone del disco che ho scritto veramente, e non per modo di dire, in 10 minuti.
Infine non posso proprio esimermi dal fare questa domanda, visto il legame con i Detroit Cobras (visti recentemente al Punk Rock Raduno) e alla scomparsa Rachel Nagy, parliamo della track finale dell’album “You’ll never be mine again”, come nasce e cosa dice questa canzone?
Verso la fine del 2019 abbiamo fatto un tour Detroit Cobras/Peawees, e si è creato un bel legame tra tutti noi. Non molto dopo quel tour, Mary mi chiese se avessi voglia di provare a scrivere delle canzoni per loro, e io ero veramente entusiasta della cosa. Credo che la loro intenzione fosse quella di provare a fare un disco di inediti. In quel periodo, io e Rachel ci scambiavamo parecchia musica, e le sue playlist erano per la maggior parte composte da canzoni soul struggenti. Qualche volta mi parlava di quello che stava vivendo in quel periodo, ma non sto ad entrare in dettagli.
Facendola breve, quando le ho mandato “You’ll Never Be Mine Again” era contentissima e la sera stessa mi mandò un’e-mail dicendomi che l'aveva ascoltata 18 volte di fila e che il testo descriveva esattamente la sua situazione. Eravamo in piena pandemia e, nel frattempo, io stavo lavorando anche al nostro disco. Quando un anno dopo Rachel ci ha lasciato, oltre ad essere stato un duro colpo per tutti, ho completamente rimosso quella canzone dalla mia mente. Mentre registravamo l'ultima sessione di One Ride, era avanzato un po' di tempo e nel momento in cui cercavamo di capire cosa fare gli altri hanno insistito perché la registrassi. Alla fine è diventata l'undicesima canzone inaspettata di questo disco. Per chiudere il cerchio abbiamo invitato Mary a registrare una parte di chitarra e sono felicissimo di averla sul disco.
Last one. Tra poco inizierà un nuovo tour: dove sarete e, domanda personale, ma dopo tutto questo tempo, cosa vuol dire calcare un palcoscenico e fare musica per voi?
Suonare dal vivo e condividere le serate con gente diversa ogni sera è l’aspetto più bello del fare parte di una band. È qualcosa che ti colora la vita e ti distanzia dalla monotonia e dall’alienazione che ti si appiccicano addosso vivendo in questa società. Certe volte torno e penso di aver vissuto qualcosa di surreale ed è inevitabile avere quella nostalgia post-tour, perché sei consapevole che ciò che hai vissuto è unico e non si ripeterà più; o meglio, tornerà, ma in modo diverso.
Suono ininterrottamente da trent’anni e non riesco ad immaginare la mia vita senza questa cosa.