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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
15/03/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Paolo Benvegnù
Una (lunga) passeggiata all’interno dell’indicibile. Paolo Benvegnù ci racconta il suo ultimo album fra politica, amore, inutilità e disobbedienza, con uno sguardo lucido e spietato su un presente in meccanica dissoluzione.

“Immaginare è divertente, quanto è inutile parlare d’amore”

 

Facciamo che tutto quello che leggerete più sotto sia il sequel di questo. E facciamo che, come tento di fare nella maggior parte delle interviste, io possa scomparire il prima possibile, chè già sono troppo invadente ed invasivo con le domande.

Do un unico avvertimento: se non vi interessano le interviste lunghe, quelle in cui si finisce per scantonare, andare fuori tema, fare il giro più largo che si possa immaginare e poi tornare in pista, potete chiudere già da ora. Sarà tutto assolutamente pieno di cose del genere. E non per chissà che gusto per gli effetti speciali, ma solo perché parlare con Paolo Benvegnù è così e basta. È avere sempre nell’aria il sapore novecentesco di chi è ancora capace di perdersi coscientemente “nelle radiofrequenze di passaggio”, tanto per citarlo. E va benissimo così.

A tutti quelli che, al contrario, sceglieranno di perdere dieci minuti del loro tempo, ritrovandosi con infinite possibilità di visioni altre, auguro una buona lettura.

 

 

Parto da lontano: la prima volta che ci incontrammo avevo letto di una tua intervista in cui parlavi di un disco che avrebbe avuto come titolo Transmiserabilia, che è un titolo secondo me fenomenale, una figata. E quindi la domanda è: questa è la “sostituzione” di Transmiserabilia o quel disco arriverà in un secondo momento?

Allora (che bello ti ricordi questa cosa!) sì, l'idea era proprio scrivere Transmiserabilia, cosa che ho fatto. E quello che è successo è che poi a un certo punto, dalla causa, che è il nostro estremo trasformismo, l'idea di essere padroni e non abitanti di questo pianeta (tanto per farci un'idea, è all'interno di questa nostra dominanza presunta essere dei miserabili sentimentalmente sempre) ecco, questa che era la causa, si è trasformata in effetto. E perciò È inutile parlare d’ amore è l'effetto esatto di quella considerazione sul tempo.

Diciamo che per certi versi l'ho scritto tutto quel disco, Transmiserabilia, e poi ho tenuto soltanto alcuni capitoli, che sono il primo, ad esempio, che è strettamente legato a un'analisi del nostro tempo, per quanto ovviamente è metafora, e “Marlene Dietrich”, che facevano parte di tutta quella scrittura. Ci sono altre cose che non penso usciranno mai, non ne avrebbero neanche bisogno, però ecco: fondamentalmente ho scritto un disco per poi scriverne un altro, questo è il senso!

 

Bellissimo. E invece da Solo Fiori, (l’EP “preludio” di questo album, ndr) come mai hai scelto solo quei due pezzi?

Allora, ovviamente sono talmente sciocco che nella mia testa c'è una narrazione più specifica e precisa in questo disco, dove ci sono dei personaggi che si rincorrono, un po' come nell'Orlando Furioso, e questi personaggi che si rincorrono hanno delle storie e fanno delle cose. E “27/12” e “Our Love Song” facevano parte di questa narrazione, perciò li ho ripresi dal pamphlet legato alla raccolta di racconti tipo selezione da “Reader's Digest”, per intenderci. E dopo invece il resto è chiaro, in questo romanzo, in questo film non scritto, i personaggi si muovono secondo una mia fantasia, che è personale e gratuita. E finchè tutto è gratuito, io mi ci muovo bene. Il mio problema è che poche cose, nella realtà, sono gratuite, e faccio una gran fatica col denaro, io, ovvero non ne guadagno! (ride)

 

Questo è un disco pieno d'amore, però anche pieno di tante altre cose. Mi faceva pensare al fatto che, fondamentalmente, cantare l'amore è un atto politico, in qualche modo: di fronte alla sconfitta totale della politica per come l'abbiamo conosciuta, forse tu più di me, l'unica risposta politica è cantare l'amore?

Sì, praticarlo anche. Cioè abbandonare l'io, gettandosi nello sperdimento del noi, del collettivo. E, in questo senso, mai come in questo momento storico (anche se sono soltanto i prodromi di un mondo terribile, per come la vedo io) parlare di amore, amare, cantare l'amore, praticare qualcosa che è diverso da noi, è un atto sovversivo, è proprio un atto da fuori legge, rivoluzionario. E ci è rimasto soltanto questo.

È chiaro che, in un mondo dove tutto si fa per l'utile, l’assioma da trovare è molto semplice: se voglio essere fuori legge, devo badare all'inutile. E l'amore, amare, francamente, sono qualcosa di inutile: che cosa ti porta? Quando è partnership è una cosa diversa dall'amore. L'amore è qualcosa che va sulle profondità, sull'irrazionale, e perciò quello che mi viene da pensare è che sia realmente una cosa inutile. Tutto si muove secondo cumuli di razionalità e pragmatismo: amare ha qualcosa a che vedere con il contrario delle regole imposte, e perciò per me è un atto politico sì, è un atto trasgressivo sì, è rivoluzionario sì, nel personale quotidiano, ed è fuori legge sì, secondo me hai fatto un'ottima considerazione.

 

In altre interviste, sempre per questo disco, dicevi di come tutte le canzoni siano arrivate, in qualche modo, per necessità. Mi viene da pensare che quello del cantautore sia un lavoro abbastanza egoistico o cosa?

Assolutamente. Allora, mettiamola così: io in realtà sono uno studente di scuola primaria, non ho più di otto anni, sotto determinati punti di vista. Non biologicamente, ma quasi tutti dal punto di vista dell'anelare all'educazione. E d'altro canto nello scrivere canzoni sono altro, e quello che cerco è di andare verso un'esposizione materica delle intuizioni. Perciò per me chi scrive canzoni dovrebbe avere questa coscienza, perché, altrimenti, se scrivere canzoni ha un senso soltanto di fidelizzazione (o di propria posizione nel mondo), tradisci esattamente il senso del racconto.

È chiaro che, all’interno di una ricerca, la fruizione del tuo tempo è talmente legata alla ricerca che si sviluppa anche un meccanismo egoistico: io non devo pensare agli altri, devo pensare a capire. E, nel caso, a disobbedire a ciò che ho capito. Per me questa è la maniera di scrivere canzoni, di fare qualsiasi tipo di cosa legata alla creazione. Mi rendo conto che sono un disadattato e che sono tra i pochi a pensarla così, ma è chiaro ed è evidente, come giustamente hai detto tu, che da un lato è un lavoro certamente legato alla comprensione dell'io, e perciò, per certi versi, è egoista, ma non lo è perché nel momento in cui tu comprendi, passi da un'altra parte. E ti senti in un mare che è ben più ampio.

 

Mi piace molto la definizione che dai di inutilità. Però io ho sempre pensato che le canzoni, così come anche i film o i libri, per dire, non siano percepiti come inutili, quanto più come superflui. Secondo te c'è questa differenza fra le due cose? Non si è inutili, si è superflui.

Sì certo! Guarda, hai perfettamente ragione: in realtà, forse, è molto più giusto dire superfluo, è il termine più esatto. Poi ovviamente “è inutile parlare d'amore” è una frase fatta e dà tutta una sua idea. È superfluo parlare d'amore però è più pertinente, sì, è vero. È superfluo. Così come tutte le cose che ci avvicinano al pericolo, parlo della società, in questo caso parlo collettivamente, come facente parte di una società, da tangente, ma facente parte di questa società. E l’amore avvicina al pericolo, perché nel momento in cui non ami nulla, che pericolo hai per la tua sopravvivenza, per la tua mancata estinzione? Non hai alcun pericolo! Allora tutto ciò che ci avvicina al pericolo, al fuoco, viene ritenuto superfluo, ed è osteggiato per certi versi.

E qui faccio un parallelismo, ad esempio cinematograficamente parlando: Elio Petri con Indagini su un cittadino al di sopra di ogni sospetto oppure con La classe operaia va in paradiso ha vinto due volte a Cannes: c'è qualcuno che ne parla, all'interno del cinema italiano? Nessuno. Perché? Perché certe cose bruciano ancora, perché ancora non sono risolte. Ecco, io (facendo le debite proporzioni di talento e di possibilità) anelo ad essere così, a non essere mai considerato, a essere superfluo, a essere inutile. Perché questa inutilità significa che sono andato a ricercare delle cose che non sono ancora risolte.

 

Arrivando al tuo “business”, alle canzoni, c'era “Tecnica e simbolica” che mi faceva pensare (anche se ogni tanto prende qualche sbandata quantomeno rivedibile) all'età della tecnica di Galimberti: siamo immersi nell'età della tecnica, e l'età della tecnica è strettamente collegata con la totale (o pressoché totale) assenza di poetica, intesa proprio come “poiesis”, come spinta creativa.

Sì, hai perfettamente ragione. E questo brano mi è stato mosso proprio dal fatto di essere andato a una conferenza (e sono d'accordo pienamente con te su Galimberti, perché ogni tanto ovviamente ci sono delle intuizioni bellissime; ogni tanto, secondo me, alcune cose possono essere affrontate in maniera diversa, ma del resto è filosofia, e perciò tutto estremamente opinabile). Però, in tutta franchezza, andare a sentire quella conferenza mi ha fatto comprendere ciò che non comprendevo, ovvero che, mettiamola così: l'alfiere nero nella scacchiera della mia vita, contro cui io mi contrappongo come alfiere bianco (ammesso che io sia l’alfiere bianco) per me era qualcosa di ignoto.

Con quello sguardo, con quella prospettiva, mi è tornato tutto. E mi è tornato il fatto che lui non è l’alfiere nero, nè io tantomeno sono l'alfiere bianco. Il senso è che è tutto talmente mescolato in questo momento storico, per cui le responsabilità rispetto alla frustrazione che gli esseri umani hanno, paradossalmente è molto più semplice applicarsele da soli, su se stessi, piuttosto che a un nemico esterno. Ecco, mettiamola così.

A me invece viene da pensare che l'unica maniera per controbattere questa estrema confusione, legata al controllo, legata al fatto che ci sentiamo come cani alla catena, fondamentalmente, per via delle impossibilità (che siano economiche, che siano di sentimento, che siano di sguardo, eccetera eccetera) ecco, l'unica maniera per controbattere a questo sia tornare indietro, ma tornare indietro veramente, tornare a pensare di essere dei naufraghi su una zattera, avere come unico strumento un sestante, osservare le stelle e muoversi secondo quello. E so che non è una soluzione, ma del resto non stavo cercando soluzioni. Stavo cercando una soluzione per me e per capire dove muovere il mio timone, ammesso e non concesso che ne abbia la facoltà, ecco.

 

A proposito di “L’Oceano” (che fra l'altro è un pezzo bellissimo, per quanto mi riguarda) mi ha stordito di bellezza la potenza del “da sempre fuori di me” che diventa “da sempre dentro di te”: questa “contrapposizione” fra il fuori di me e il dentro di te è l'unica sintesi possibile per dire l'indicibile?

Sollevi una bella questione; sì, secondo me sì. Da un lato è una riflessione sui vari aspetti che ognuno di noi porta: io, ad esempio, devo essere fuori di me per fare quello che cerco di fare ogni giorno, e d'altro canto, poi, ogni volta che arrivano delle considerazioni, delle intuizioni, devo essere dentro di me per cercare di discernerle. È anche un racconto al maschile e femminile, dove l’essere fuori di sé è prettamente del genere maschile, e l’essere dentro di sé nella costruzione (anche ingenua, anche innocente, anche cieca) è qualcosa di estremamente legato al femminile.

È un brano su più piani, l'unica cosa che mi viene da pensare, e che mi sembra l'intuizione giusta, e che quando mi è arrivata mi ha risolto un sacco di problemi esistenziali, è che veramente l'unica chance che abbiamo è di gettarsi l'uno dentro l'altro, e diventare un oceano. Non c'è altro, non c'è altro davvero, al di là delle considerazioni personali, bisogna gettarsi in un oceano dell'altro, dell'alterità, non necessariamente di una relazione: parlo della relazione con qualsiasi altro al di fuori di noi.

 

Di un rapporto umano in generale?

Sì, di un rapporto umano, ma anche il rapporto verso il mondo, verso l'universo: finché non ci mettiamo l'uno nelle mani dell'altro, continueremo a essere sempre postmoderni e iperarcaici. E non c'è niente da fare purtroppo, è così.

 

Invece “Pescatori di perle” è ricercare la bellezza in basso, quindi tornare a scavare, oppure doversi necessariamente sommergere in qualche modo per poter tornare in superficie?

Bella considerazione anche questa. A me viene più che altro da pensare al fatto che, in realtà, siamo spesse volte sommersi: sommersi da altro rispetto all'essenziale della vita, ad esempio la percezione del miracolo quotidiano. E chi cerca di farlo capire agli altri viene, paradossalmente, visto come un folle, o quantomeno un disadattato. Ecco, per me questo è il pescatore di perle, colui il quale si getta nelle profondità per dire “Guardate che c'è vita anche a 500 metri sotto di noi”, ed è una vita che noi non riusciamo a vedere, e perciò per noi è inutile, è non considerabile. Invece c'è una vita che è piena di bellezza, al di là del valore che noi diamo a una perla, ma può essere qualsiasi cosa. Ecco, quello che mi viene da pensare è proprio questo. Ho un grande rammarico, anche personale, nel vedere che coloro i quali hanno un afflato verso l'altro vengano spesse volte non considerati. E perciò mi auguro che, ad esempio, coloro i quali fanno una ricerca approfondita abbiano, un giorno, la possibilità di rilasciare “breviari di sopravvivenza” a colori i quali devono fare altro per sopravvivere.

 

Mi è sembrata molto pirandelliana, questa ricerca della fuga…

Beh, sicuramente. Senza quelle altezze, eh! Diciamo che si parla di altrove: quello è un altrove quasi ragionato, il mio, purtroppo, è un altrove nel prepensiero, è un altrove quasi organico, anche perché davvero mi sento così in questo momento della mia vita. È come se la realtà non mi bastasse, ma non perchè ho bisogno di altro: perché, davvero, secondo me la realtà è difforme da come la vediamo, abbiamo ognuno una nostra soggettiva, che è una soggettiva generale per cui il verde è il verde, il rosso è il rosso. Ma se io fossi una farfalla, il rosso sarebbe altro, e avrebbe un altro nome, ammesso e non concesso. E questo è quanto. Perciò il non riuscire a considerare questa ampiezza di prospettiva come fa a conciliarsi col fatto che per noi la realtà è la realtà? E perciò questo acuisce da un lato la mia fantasia, di questo sono molto lieto, dall'altro sono molto vicino a essere portato via con un'autoambulanza (ride), perciò soffro, è anche preoccupante questo aspetto!

 

Photo credit: Mauro Talamonti

 

In “Marlene Dietrich”, più che il silenzio di Rodolfo Valentino, m’ha colpito la scelta delle figure femminili. Per esempio, ti devo dire che io non conoscevo Tamara De Lempicka, e poi ho scoperto una figura molto affascinante: da dove è arrivata quella scelta lì?

Guarda, il senso è questo: tutte le figure femminili prese in esame, come Greta Garbo, come Giovanna d'Arco, sono figure femminili che hanno avuto una grande frustrazione iniziale, e attraverso la disciplina hanno spiccato il volo. Perciò sono due gli inviti al mondo femminile, nella scrittura di quel brano: uno è l'autoemancipazione, che dipende anche dalla disciplina del proprio movimento interiore; l'altro è legato al fatto che mi piacerebbe, visto che sono arcaico, essere vittima della Regina del Grano, che ha bisogno di sangue maschile per fecondare i campi, come nelle società matrilineari di dieci-quindici-ventimila anni fa.

Il senso è che, secondo me, dovrebbero vendicarsi, e non avrei problemi ad essere il primo a sacrificarmi per questo. In questo, secondo me, sta tutta la scrittura del brano. Certo, Rodolfo Valentino, essendo muto nella sua rappresentazione, è in fuga, ed è esattamente il genere maschile al quale io stesso sono legato. E perciò, mettiamola così, è una serie di dichiarazioni di intenti. Per me l'idea è che un certo tipo di emancipazione venga non soltanto dal diritto che la società ti può dare, ma anche dallo sguardo, dall'ampiezza dello sguardo, che ti dà diritto ad essere molto più pertinente negli interventi, perciò è veramente un invito sia al femminile che al maschile.

 

Altra cosa che mi è piaciuta un sacco è la “cinematografia del perdersi” che ha questo disco più di altri tuoi lavori, per quanto mi riguarda. Dico questo perché le note all'album le ho trovate fenomenali. Non so quanti dei colleghi le abbiano lette, ma non sanno cosa si sono persi, ecco.

Fanno parte della costruzione “fantasiosa” che ho quando scrivo un disco: scrivo veramente la sceneggiatura di un film, per certi versi, anche i dialoghi tra i personaggi. C'è una mole di lavoro dietro a 12 pezzi che escono, che è sciocca da un lato, e che però mi piace fare, perché non è un discorso strettamente legato all'automotivazione: “Ah, ok, ho fatto questo perché ci ho pensato”, non è soltanto quello. È che strettamente legata alla fantasia dell'esistere, secondo me, ci dovrebbe essere una grande volontà di raccontare le storie degli altri, e perciò, anche se questo disco parla estremamente di me, mi è piaciuto pensare a dei personaggi che si muovessero in determinati ambiti e che avessero un dialogo attraverso quelle parole. E poi è un pamphlet che tengo per me, devo dire che tutti gli altri li ho anche buttati via, perciò magari questo qua lo tengo perché ci tengo un po' di più, ecco. Me ne faccio una copia e me la guardo ogni tanto! (ride)

 

Hai fatto quasi un disco transmediale, praticamente.

(ride) Sì! Anche se poi ovviamente rimarranno soltanto le canzoni. Non “rimarranno nella storia”, ecco, rimarranno per me. Però questo a me piace molto, mi è capitato, nel tempo, di leggere della letteratura in cui si comprende che certe parole non sono arrivate lì al primo momento: c'è un discorso dietro ogni frase che è legato a 15 giorni di intuizioni, e per me questo è scrivere, il resto è parlare e va bene, già parlare, per certi versi, è un po’ un tradimento del pensiero, se posso permettermi, perché le parole si concatenano, il pensiero è veramente più astratto. Le parole si concatenano anche per simpatia tra di loro, e perciò c'è una differenza tra la letteratura scritta e quella parlata. Ad esempio, per me Fabio Volo a fa letteratura parlata, se posso dire e con tutto rispetto. Ovviamente tutto rispetto per il termine parlata, ci mancherebbe!

 

Adesso devo essere onesto e devo dirti che il primo ascolto (ma anche il secondo e il terzo) di "Canzoni brutte", immediatamente dopo la sua uscita, mi avevano lasciato per un attimo con un “che cazzo ha fatto?” in testa, c’era qualche cosa che mi sfuggiva. Poi la mattina dopo, parlandone anche con altri colleghi, quello che un po’ tutti ci siamo detti è stato qualcosa tipo “Ok, Paolo si è incazzato”. Che dici a proposito?

C’è sì, c’è che mi sono arrabbiato. Quel pezzo l'avevo pensato proprio nell'unico momento in cui uno dei due personaggi chiave di questo disco abdica alla propria ricerca, cerca di trovare una scorciatoia e immediatamente dopo torna indietro. E perciò l’idea era proprio questa: questo abdicare è strettamente legato all’impossibilità di essere nel mondo reale. E, se devo dirti la sincera verità, quando ho scritto quel pezzo (e anche, ai tempi, “Italia pornografica”) ero francamente inorridito. Non soltanto per il risultato (ride), ma inorridito da prima, per ciò che mi aveva portato a pensare di scrivere un pezzo del genere, ma anche inorridito nell’averlo fatto.

Non so come dire, è come se avessi voluto mettere realmente anche il peggio di me, anche la mia versione ironica, che è una cosa che a me non piace: a me l’ironia piace relativamente, anzi, è qualcosa che è molto semplice da usare: “Sono ironico, posso dire di me quello che voglio, posso dire di te quello che voglio”. No, tu non puoi dire quello che vuoi, tu puoi dire quello che pensi, che è una cosa diversa. Perciò se in questo disco ci sono tutta una serie di raggiungimenti di comprensione verso l’alto, l’idea era di andare anche verso il basso, anche verso considerazioni ignobili. Penso di non rifarlo mai più nella mia vita in un disco, però era una cosa che dovevo fare. Non l’avevo praticamente mai fatta: l’ho fatta, e me ne vergogne anche un po’, alle volte.

 

E però ti dirò che poi, andando in là con l'ascolto, secondo me la canzone più spietata del disco è “In der nicht sein”, quella che non lascia scampo.

Esatto, è senza scampo, ma è così. Nel senso, quando mi dicono che sono pessimista, a me piacerebbe tanto esserlo. Purtroppo, anzi, io sono un ottimista: mi sveglio la mattina e penso che tutto vada bene per tutti. Nella realtà, se devo essere realista (non pessimista) se devo essere realista, mi sembra proprio di vedere sperdimento. Ma non uno sperdimento legato alla gioia. È uno sperdimento legato alla frustrazione: tutto il “Primo mondo” da sempre ha questa grande deflagrazione tra il “mondo che ti piacerebbe” e il “mondo come è”, ed è una forbice che si allarga sempre di più.

Detto questo, quale futuro abbiamo nel momento in cui c'è una telecamera ogni dieci metri, nel momento in cui tu non hai alcun momento di tregua, durante il giorno, durante la notte; lavori sempre, puoi anche non lavorare mai, ma in realtà tu controlli gli altri, gli altri controllano te: quale speranza c'è, ammesso e non concesso che il termine speranza sia bello, se non viene trattato dal punto di vista strettamente cattolico (e per me, anche sotto quel punto di vista, non è bello)?

Detto ciò, quello che mi viene da pensare è che soltanto arrivando alla considerazione che la nostra relazione col mondo è arrivata alla fine, perché non riusciamo più a respirarlo, né ad abitarlo, ma vogliamo possederlo, vogliamo dominarlo, allora, a quel punto, soltanto da lì si può venirne fuori. È  una considerazione spietata, e lo è volutamente, perché secondo me è così, e non è pessimismo. E siamo ai prodromi: tra vent'anni, trent'anni, tu vivrai quel mondo, io magari non ci sarò più, e se per caso ti vengono in mente queste parole, vedrai che ti stupirai a pensare che questo momento di grande libertà.

 

Io purtroppo ne sono convinto già adesso, anche io lo percepisco come realismo. E quello sull’imbastardimento fra pessimismo e realismo è un discorso molto simile a quello che, per dire, al liceo ci facevano su Leopardi, guarda caso un altro di quelli che aveva capito tutto con decenni di anticipo e che s’è visto dare del pessimista.

Esattamente, ma anche lì, Leopardi altrochè se era realista! Poi dopo è chiaro, c'è, tra l'altro, questo doppio meccanismo in cui da un lato era un privilegiato, e d'altro canto invece era una persona che aveva dei problemi proprio nella normalità della considerazione da parte degli altri. Perciò, capisci, se uno è più sensibile non riesco a capire per quale motivo è pessimista: se uno sente qualcosa di diverso rispetto agli altri deve essere sempre preso è considerato un diverso. Ma, al di là delle considerazioni che si possono fare adesso sui generi eccetera eccetera, a me sembra che il problema è che non riusciamo più a sopportarci l'uno con l'altro, e forse questa è una cosa da andarsi a vedere.

 

Photo credit: Starfooker

 

Sempre a proposito di tempi scivolosi, il profluvio di domande che sta in “Libero” è (perdona il gioco di parole) una risposta alle risposte che ci sono? La pongo meglio: è un momento in cui ci sono molte poche domande e tantissime risposte, tutti hanno risposte.

Mettiamola così: a me “Libero” piace perché non è un pezzo mio, ovviamente: l'ha scritto quasi totalmente Luca Baldini e io ho soltanto messo una domanda in fondo: “Chi sei tu? Chi sei tu?”, che è una domanda che ha un sacco di possibilità di risposte, dipende dallo sguardo di ognuno, no? Ad esempio, se io dovessi pormi la domanda riguardo a me stesso, veramente mi risponderei che sono uno studente della scuola primaria, nonostante la mia età biologica dica altro.

C’è di mezzo il fatto che in quel brano Luca ha stigmatizzato una cosa abbastanza interessante, cioè il fatto che per riuscire ad essere in relazione con qualcos'altro, tu devi essere almeno un briciolo risolto, perché altrimenti la relazione non può funzionare, se tu chiedi all'altro sempre aiuto. Perché ognuno di noi è come Gesù coi lebbrosi: la vita azzanna, e spesse volte non hai la forza per sopportare gli altri perché non si è risolto, perciò questo è quanto. Devo dire che mi ha fatto un gran regalo, Luca, perché avrei voluto dire le stesse cose, ma non sono stato in grado di scriverle. Ci ha pensato lui, meno male!

 

Invece, quando in “L'origine del mondo” canti, “Siamo l'incendio impossibile che salverà tutto il mondo dalla sua gioia impossibile”: quella lì, forse, a livello di testo, è la canzone più apocalittica, quella violenta davvero. Il raggiungimento dell'impossibile, dell'impossibilità in generale, secondo te ha a che fare con la violenza? Cioè, è violento per necessità, per forza di cose?

È violento come la vita, come l'inizio della vita, che ovviamente è figlia di una casualità (almeno dal punto di vista scientifico pare sia così) è figlia di una casualità che ha avuto un impatto violento. E perciò la vita è violentissima, se ci pensi. Io ho visto mia figlia nascere, e succede che nel momento in cui la vita appare, è bisognosa di ogni cosa ed è aggressiva, è iraconda, questo mi viene da dire. È violenta e parla violentemente, la vita, perché ne ha bisogno, perché ha bisogno di qualcosa per mantenersi in vita, è un discorso proprio strettamente legato alla sopravvivenza. Anche questo è un aspetto che non vediamo più, quando si parla, ad esempio, dell'amore di relazione e si pensa alla violenza, è sempre qualcosa (giustamente) di legato al possesso, e questa è una cosa sbagliatissima ovviamente. Ma c'è anche altro, nel profilarsi di due amanti furibondi, c'è anche la volontà di fondersi esattamente in una cosa sola, e questa fusione è necessariamente violenta: non si fa attraverso la testa, si fa attraverso altro.

 

Mi viene da pensare che tutto questo ragionamento finisca per iscriversi in un contesto sempre più polarizzato e polarizzante: si sono perse le vox medie, non ci sono più sfumature.

Sì, sono d'accordo. Anche in questo sono d'accordissimo con te. E si è anche perso, per certi versi, mi viene da dire, il valore della vita: se tu la morte non la vedi mai, il dolore non la affronti mai, chiaramente la tua vita non ha alcun valore, ti senti penalizzato. Non senti neanche il miracolo che sei. Questa è la cosa che ci stiamo dimenticando proprio come società del Primo mondo, ed è terribile!

 

Paradossalmente stanno tornando dei tabù che erano stati abbattuti.

E non è un caso, perché c'è una paura incredibile.

 

Per chiudere, volendo anche con una certa circolarità con il discorso dell'amore come atto politico, un'altra forma di disobbedienza può essere continuare in maniera ostinata ad esercitare la “fantastica”, per come la chiamava Rodari? Quella è un'altra risposta possibile?

In realtà io sono convinto di questo, che obbedire significa, spesse volte, avere poca fantasia, a proposito. Cioè, hai bisogno di un mondo preordinato nel momento in cui tu non hai uno sguardo ulteriore rispetto a ciò che succede. Non è un caso che gli Stati, da sempre, dicano ai loro sudditi come bisognerebbe comportarsi. Ad esempio, secondo me le democrazie occidentali sono sempre state paternalistiche: ti lasciano la giusta corda per poter muoverti e rimpinguare le loro casse con le tasse, però fondamentalmente è come se ci fossero delle caste, una specie di ordine precostituito che tu, proprio per questo paternalismo, puoi frequentare relativamente, ed è una cosa che è strettamente legata alla mancanza di merito (in Italia questa è una cosa particolarmente acuita).

Perciò cosa significa? Noi siamo obbedienti nel momento in cui non abbiamo la fantasia per vederci in un altro modo, per sentirci in un altro modo. La disobbedienza è strettamente legata alla fantasia, e, del resto, se c'è qualcosa che, nell'amore, anche nell'amore di relazione, è importantissimo, è la fantasia nel ritrovarsi ogni volta nel mistero dell'altro.

Ed ecco che sì, la disobbedienza è facente parte delle condizioni di cui parlavo prima, il fatto di pensarsi anche un po' fuori legge, di pensarsi politicamente scorretto soltanto nell'amare, ecco. E perciò si è francamente disobbedienti. C'è una circolarità, hai ragione tu, in tutto questo discorso, e devo dire che me l'hai fatta notare ancora meglio, perché io un po' l'avevo pensata, ma non l'avevo arguita in maniera perfetta, come hai potuto notare dal fatto che sono quattro minuti che dico cazzate! (ride). Scherzi a parte, è vero, hai colto esattamente: c'è una circolarità in tutto questo, ma non era voluta ovviamente.

 

Diciamo che il non averla cercata di proposito, ma averla comunque trovata rende il tutto molto anarchico, a me piace molto questa cosa, in realtà.

Vedi, se c'è un'altra cosa che ho capito (che sono tre o quattro, non di più, eh!) tra queste quattro cose che ho capito nella mia vita, è il fatto che tutto è assolutamente in metamorfosi, e gli esseri umani sono veramente sciocchi quando cercano di cristallizzare uno status, perché magari puoi cristallizzarlo soltanto nel mondo degli uomini per una decina d'anni, ma fondamentalmente tutto è destinato a essere in metamorfosi: è una legge universale, è una legge naturale.

La natura ha tempi più lunghi rispetto agli uomini, ovviamente, però mi viene da pensare a questo, che anche se la flessibilità e l'elasticità sono qualcosa di strettamente legato alla fruizione del lavoro in questo momento storico, il pensiero dell'uomo è estremamente elastico, e in questo senso è estremamente fantasioso, e in questo senso è estremamente amoroso, amorevole, amatore. Non professionista, ma amatore.

 

Il non professionismo mi riporta a Paolo Conte: “Era un mondo adulto, si sbagliava da professionisti”.

Ma certo, ha ragione! Voglio dire, io mi ricordo quando la prostituzione veniva definita tale: “Cosa fa  quella signora?”, “Fa la professionista” (e altrettanto al maschile, ovviamente). Allora mi piacerebbe un mondo più di amatori e meno di professionisti, mettiamola così.

 

Un mondo di gente professionale e non professionista.

Esatto. Anche di esseri umani meno istruiti e più educati sentimentalmente, è una cosa diversa. Sembrano due aspetti identici, ma non è così. Accidenti, l'ha già detto Massini (ride), purtroppo però è così. Massini dice sempre tutto in anticipo, maledetto lui! (ride di nuovo) Anche lui, comunque, è un grandissimo, porca miseria! Ha un sacco di intuizioni, ha dei collegamenti molto interessanti, Massini, tra un aspetto e l'altro delle cose da comprendere.

 

È una gran figata andare per intuizioni.

Sì, è vero. Devo dire che con le poche cose che so, sono andato spesso per intuizioni, senza scegliere di andare per intuizioni. Adesso, che magari, nella stratificazione, so quel pochissimo in più, e che è sempre, ovviamente, infinitesimale rispetto a quello che mi piacerebbe sapere e comprendere, sento che alle volte è quasi una scelta slacciarsi dalla testa e andare verso altre parti del corpo. Sarei patetico se dicessi di andare dalla parte del cuore: a me viene da pensare più della parte del ventre, che è un po' il centro della nostra esistenza, capito? Andare dalla parte del ventre, vuoi perché secondo me è strettamente legato alla creazione per il genere femminile, vuoi perché (adesso lo evinco in maniera specifica) essere una donna mi sarebbe piaciuto molto. Mi sarei divertito di meno sotto alcuni aspetti, ma molto di più sotto altri: avrei saputo un sacco di cose in più fin dall'inizio. Per me, ad esempio, cantare è diventare madre, non è altro. La mia maniera di vivere la musica, fondamentalmente, è quando, nell'espressione, arrivo a diventare altro da me, dalla mia miseria, dal mio essere terricolo. E alle volte, devo dire, ho come la sensazione di diventare una buona vecchia madre: non è male.