Stiamo vivendo un momento particolare della nostra storia e della storia del mondo in generale. Niente da due anni a questa parte è più come prima: ci sentiamo indifesi, atterriti, nervosi perché ci siamo resi conto che basta un attimo per non riuscire a controllare la nostra vita e le certezze vacillano. Fortunatamente rimangono ancora alcuni capisaldi che possono rasserenare durante l’arduo percorso della nostra esistenza e l’arte è senza dubbio uno di questi. L’arte, e nel più specifico la musica, è una luce calda e rigeneratrice che illumina le stanze del cuore: Nicola Chinellato lo sa bene e ha deciso di raccontarci la nascita e i retroscena di 101 canzoni, racchiuse nell’arco temporale di più di mezzo secolo, da fine anni Cinquanta ai giorni nostri, ma unite da un’unica matrice, straordinariamente legate da un sottile ma indistruttibile filo conduttore. Il risultato è, utilizzando le parole dell’autore, “Una guida ragionata alle canzoni tristi, un manuale sulla malinconia e il dolore. Tristi nel senso più ampio del termine e, quindi, per i testi, per le melodie, per le storie che raccontano.”
L’originalità della tematica, unita al linguaggio poetico ma mai autoreferenziale, coinvolgono emotivamente nel leggere i vari capitoli e capita, a tratti, di faticare a trattenere le lacrime, ma tutto è a fin di bene, è qualcosa di liberatorio e si esce più forti al termine della lettura. Ci si trova con 101 amici in più che ci capiscono e non ci abbandonano più. E sono veramente 101: accendete il giradischi, mettete su le canzoni e aprite il libro.
La prima questione da affrontare sarà anche banale ma è d’obbligo. Perché proprio 101 canzoni?
La domanda è più che legittima, invece. L’idea iniziale era quella di arrivare a cento canzoni, poi però mi sono trovato ad avere molto più materiale di quanto pensassi e a quel punto qualcosa dovevo per forza escludere. E non è stato affatto facile, perché certe canzoni non volevo assolutamente mollarle. Così, per salvarne almeno una, ho deciso che sarebbero state centouno invece che cento. Alla fine, mi sembrava che suonasse anche meglio, che desse un tocco di disarmonia formale al progetto.
Come e quando è nata l’idea del progetto? Hai subito pensato a una suddivisione in capitoli in tale maniera?
L’idea del libro sulle canzoni tristi è nata anni fa. Avevo iniziato un percorso, che poi ho dovuto interrompere e ho accantonato tutto per un po’ di tempo. Il desiderio, però, è rimasto nel cassetto, non ha preso polvere, e ho quindi deciso di realizzarlo. Avevo voglia di misurarmi con molti brani che sono stati veri e propri compagni di vita, sottofondo emozionale di momenti salienti della mia esistenza. Canzoni che mi hanno aiutato a superare difficoltà, che hanno avuto un effetto catartico, lenendo le ferite causate da piccoli o grandi dolori. Anche canzoni, però, che tutt’oggi trovo indispensabili ascoltare, quando la malinconia prende il sopravvento, e sento il bisogno di acuire i sentimenti, di eccitare lo struggimento interiore, in un percorso di consapevolezza. Ho pensato a queste canzoni che mi avevano sempre dato così tanto, e ho quindi pensato di restituire loro qualcosa. Quando ho finito il processo di scrittura, mi sono reso conto che ogni singolo brano poteva essere incanalato in un argomento, e così è nata questa suddivisione per argomenti, che potesse dare un filo logico all’esposizione.
Riprendendo una concezione cara alla fenomenologia di Husserl, “Il tempo è infinito, scorre infinitamente in una direzione ma quale sia non la sapremo mai.” Può la bellezza della musica sconquassare l’ideologia del continuo essere in movimento e cristallizzare determinate situazioni, facendoci vivere in un mondo parallelo che si ciba di questi capolavori?
Un tema complesso. La musica, e così l’arte, sono per loro stessa natura, realtà sfuggenti, multiformi. È il tema pirandelliano dell’Uno, Nessuno, Centomila. Le canzoni nascono da un retroterra e hanno un intento, a volte nobile, altre volte, no. Appena prendono vita, però, non sono più di “proprietà” di chi le ha scritte, ma di chi le ascolta, di chi ci si riconosce, di chi attribuisce loro un significato. Se c’è un continuum temporale è dato, per richiamare Husserl, dalla “presentazione propria e diretta” della canzone: la canzone esiste perché è stata scritta, la conosco e posso ascoltarla. Ma la musica vive soprattutto nella dimensione dell’ascoltatore, nelle emozioni che genera, nei palpiti che si provano ascoltandola. È una linea retta con migliaia di diramazioni, di approcci diversi, di storie parallele e spesso divergenti. Dimensioni in cui il movimento è continuo, quando una melodia ci accompagna per sempre, o stasi, quando il rivolo delle emozioni si spegne immediatamente, o magari nemmeno nasce.
Il tuo è un libro che cura e lenisce le ferite pur nutrendosi di storie tristi, di melodie ideate da chi ha provato dolore che rimarranno per sempre nell’enciclopedia della musica. A fare da collante ci sei tu, con le tue scelte e i racconti legati a ogni brano. In realtà sembra che le canzoni parlino proprio da sole, sei riuscito a lasciare un’impronta quasi senza farti scorgere. Qual è il segreto?
Non credo di avere segreti, e ti assicuro che spesso, scrivendo, non mi sono sentito all’altezza della canzone di cui volevo raccontare. Ho cercato una storia che si celava dietro a ciascun brano e ho cercato di darle forma e sostanza. Come avrai colto leggendo, ho evitato il più possibile di dare un taglio tecnico, e probabilmente non sono nemmeno in grado di darlo. La mia intenzione era solo quella di emozionare il lettore, di suggerire perché quella canzone, ascoltata magari cento volte, oppure mai ascoltata, valesse la pena di essere riscoperta e o scoperta. C’è musica, in questo libro, certo, ma c’è soprattutto emotività, e ritengo, in un certo qual modo, anche un taglio politico, la volontà di schierarmi su alcuni temi che ritengo imprescindibili. È la storia celata dietro la canzone, però, a essere protagonista, sono le note, è la melodia. Ho fatto solo da tramite, cercando di farlo al meglio delle mie possibilità.
George Harrison, che cito non a caso, vista l’inclusione di “Eleanor Rigby” dei Beatles, sostiene che l’arte del songwriting è assimilabile a una confessione. Mi permetto di aggiungere che probabilmente questa affermazione si può collegare anche a chi scrive un libro. Che ne pensi?
Assolutamente vero, almeno nella maggior parte dei casi. Chi suona o chi scrive (ma vale anche per chi dipinge, fotografa, filma, etc.) inevitabilmente si espone, condivide con gli altri una parte della propria anima, del proprio sentire, delle proprie emozioni. Più la confessione è sincera, più è possibile l’immedesimazione fra l’artista e il suo pubblico. Anche una confessione col cuore in mano, però, per essere credibile, necessita di una forma: ortografica, lessicale ed emozionale. L’emozione per arrivare al cuore di chi ascolta o legge ha bisogno di una struttura, che potremmo definire grossolanamente “comunicazione”. Io penso che più il linguaggio sia in grado di farsi universale, e quindi semplice e comprensibile (ma non sciatto, ovviamente), più il compito della “confessione” sia assolto. Hemingway sosteneva che un grande scrittore preferisce le parole che valgono un centesimo rispetto a quelle da un dollaro, ed è un assunto che sposo completamente, che vale nella scrittura tanto quanto nella musica. Quante straordinarie canzoni sono state scritte su tre accordi di chitarra? Un’infinità. Certo, la forma può essere anche molto “alta”, ma così la confessione viene relegata all’interno di una nicchia, e il rischio del monologo o dell’onanismo intellettuale è dietro l’angolo.
Nella tua opera durante l’analisi dei brani fai spesso riferimento al mal d’amore, al tormento sentimentale per un amore finito o mai corrisposto definendolo vero e proprio lutto. Mi viene in mente a tal proposito l’intensa analisi di “Black” dei Pearl Jamo le commoventi e strazianti “Dancing Barefoot” e “Almost Cut My Hair”, che rivelano alcuni riferimenti storici e accadimenti davvero tragici, sconosciuti ai più. La grandezza degli artisti di cui parli sta anche in questo: essere riusciti a convogliare tanto dolore in qualcosa che dà sollievo ad altri. Avviene la piena identificazione in questi capolavori da parte delle persone che hanno vissuto situazioni simili. La trovi una chiave di lettura che rispecchia anche il tuo pensiero?
Certo, è proprio così. Quando viviamo la fine di una storia d’amore stiamo vivendo un vero e proprio lutto. Non solo perché perdiamo quella persona specifica, ma perché perdiamo ciò che noi siamo stati con quell’uomo o con quella donna. Dobbiamo dire addio a una parte di noi, seppellirla e fare i conti con un vuoto della nostra anima, talvolta impossibile da riempire. E’ un mondo di odori, sensazioni tattili, gusti condivisi, parole e abitudini che se ne va per sempre, e nella struttura complessa del nostro io, l’edificio presenta crepe e macerie. Ricostruire non è semplice, e la musica sicuramente è un alleato, quando ci aiuta a comprendere che il mal d’amore è condiviso, che il peso, che sembra ineluttabilmente solo nostro, può essere ripartito fra tutti quelli che vivono lo stesso dramma. Quando, tanti anni fa, venni lasciato da una fidanzata di cui ero innamoratissimo, trovavo consolazione solo ascoltando in loop "A Night Like This" dei Cure. Sentivo lo stesso dolore, la stessa angoscia che Robert Smith cantava in quella canzone. Era una pacca sulla spalla, un abbraccio, la reiterazione del mantra: “non sei solo, tutti abbiamo sofferto per amore, puoi farcela anche tu”. Non so se la musica sia davvero in grado di salvarci la vita, ma di sicuro, in certi momenti difficili, può essere una stampella a cui appoggiarci, prima di ricominciare a camminare con le nostre gambe.
Dal titolo si evince che non viene trattato solo lo strazio interiore, ma nei vari capitoli si affrontano anche altre tematiche che dimostrano quanto l’uomo sia fragile in talune circostanze. Ad esempio la droga, a volte utilizzata anche come strumento d’ispirazione, è quasi sempre poi risultata devastante, e lascia basiti quanto si debba ancora fare riguardo al rispetto dei diritti di tutti, soprattutto dei più deboli. Alice in Chains, Neil Young, Johnny Cash, The Smiths, Melissa Etheridge, Antony & The Johnsons, Sam Cooke e Nina Simone sono soli alcuni nomi presenti nei vari episodi. Immagino sia stato molto toccante ricostruire le storie di questi personaggi e il significato forte delle loro composizioni.
Sì, molto, a volte forse fin troppo, soprattutto per quelle canzoni o quegli artisti (cito Layne Staley per tutti) che sono stati fondamentali nella mia vita. La difficoltà maggiore è stata quella di riuscire a prendere la distanza dalla materia, di riuscire a raccontare senza farmi prendere la mano da suggestioni personali o dall’enfasi della retorica. Ci sono riuscito, credo, concentrandomi sul messaggio politico e sociale, che ha stemperato le emozioni, aiutandomi a trovare la giusta forma espressiva.
Di Lacrime E Di Sangue è un percorso attraverso canzoni che abbracciano ogni genere. Gli ultimi due capitoli sorprendono sempre più in quest’ottica. Si va da “Nostalgia” di David Sylvian a “Wonderful Life” di Black e credo non sia un caso la scelta di terminare il tomo con un pezzo molto particolare dei Cranberries...
Talvolta mi dicono che sono dissociato perché nella stessa giornata posso ascoltare gli Slayer o i Pantera, e poi passare ai Duran Duran e a Bill Evans. Suona strano, effettivamente, ma ho dentro di me tutta questa musica ed è un minestrone che, dal mio punto di vista, trovo gustosissimo. Era inevitabile, quindi, che la scelta delle canzoni da raccontare abbracciasse svariati generi. Per dire, ho inserito "Chop Suey!" dei System Of A Down, e fino all’ultimo mi dicevo che stonava rispetto al resto. Non è così, però: è metal, ma è una canzone tristissima, che allude al suicidio e ti spinge a riflettere sulla morte, su quale immagine di te stesso lasceresti al mondo se morissi ora. Alla fine ho pensato che potesse trovare posto anche a fianco di brani esteticamente agli antipodi, come "Nostalgia" e "Wonderful Life". I Cranberries non potevano mancare, Dolores O’Riordan ha segnato la mia vita e credo quella di tanti altri ascoltatori. Ho scelto "Wake Me When It’s Over", una delle loro ultime canzoni, perché mi turbava molto la consapevolezza nascosta dentro le liriche, come se Dolores fosse certa che il suo cammino su questa terra fosse giunto al termine. Il racconto, messo alla fine del libro, assume una doppia valenza: la chiusura del cerchio della lettura e un riferimento agli anni disgraziati che stiamo vivendo. Temo che il risveglio, però, sia ancora molto lontano.
Abbiamo discusso di dolore, acuta sofferenza, ingiustizia, tragedie e profonde perdite. Eppure nelle 101 composizioni e nella tua scrittura emerge una speranza, un sogno: che la bellezza di una canzone trascenda ogni male e diventi salvezza, riscatto...
Oggi, per molti, questo mondo non può più essere salvato, e dire che la bellezza abbia la possibilità di farlo, sembra una frase retorica, svuotata di ogni significato. Io sono ingenuo, e penso ancora che, invece, la bellezza, e quindi l’arte, abbiano la possibilità di rimettere a posto le cose, almeno in parte. La società ha plasmato generazioni di inconsapevoli, ha ottuso i sensi con gli algoritmi della tecnologia, ha creato deficit di attenzione e trasformato la lentezza in un disvalore. Resiste una nicchia di appassionati, però, che spesso vivono in un mondo a parte, una riserva per razze in via d’estinzione. Attraversati da feroce snobismo. Non può essere così, però, bisogna uscire dagli steccati e rischiare qualcosa, anche misurarsi con chi non sembra interessato o ne sa meno di noi. Perché la bellezza è contagiosa, e bisogna impegnarsi a divulgarla. Se il mondo che ci circonda non conosce, diamoci da fare perché conosca. Una canzone, in tal senso, può ancora fare tanto.
Non potremmo vivere in un mondo senza immagini, ma è alquanto difficile trovarne una che rappresenti pienamente e aiuti ad ampliare gli orizzonti. Ritengo che la copertina dell’opera faccia incantevolmente assaporare tutto ciò che incontreremo all’interno. Sono curioso di sapere i particolari di questa straordinaria creazione.
La copertina è splendida, hai ragione. Quando ho contattato la fotografa, Mary Pellegrino, per chiedere se era disponibile a scattare una fotografia per la copertina del libro, pensavo che, come si dice a Milano, mi mandasse “a ciapà i ratt”. Invece è stata gentile e disponibilissima, e si è offerta di buon grado. Lei ha una sensibilità artistica unica, un occhio che sa raccontare storie in uno scatto. Ha capito subito quale fosse l’anima del libro, ha colto il mood ombroso dei racconti e ha scattato quella foto incredibile. Suggerisco a tutti, dopo aver letto il libro, di appenderlo a una parete di casa: è una vera opera d’arte.
Si potrebbe definire la musica come nutrimento per l’anima. A tal proposito pare tu sia un ottimo cuoco e intenditore di vini. A che abbineresti le tue 101 canzoni?
Come cuoco me la cavo, ma sono uno chef da osteria. Più che altro, mi piace mangiare e bere bene, che trovo siano due passioni che rendono la nostra vita più bella. Se dovessi scegliere un vino per accompagnare la lettura, punterei decisamente su un vino da meditazione, capace di enfatizzare il piacere della lentezza che dà la lettura. Un Amarone, quindi, o uno Sforzato.
L’ultima domanda è scontata, stai già pensando a un sequel del tuo best seller?
Ti ringrazio per il best seller. Anche se non sarà così, lo prendo come un augurio. Comunque, sì, sto già lavorando a un altro libro, che spero verrà pronto per Natale o per l’inizio del 2023. Non saranno più, però, canzoni tristi: dopo una pandemia e una guerra, è tornato il momento per un po’ di leggerezza.
Di Lacrime e di Sangue è acquistabile su Amazon e su tutte le principali librerie online.
Per chi lo desidera, su Spotify è presente una playlist che contiene tutte le 101 canzoni raccontate da Nicola. QUI il link.