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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
07/11/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Luca Di Mira (Pillow)
In occasione dell'uscita dell'ultimo album, Steps, abbiamo avuto l'onore di fare delle meravigliose, sfaccettate e non banali chiacchiere con Luca di Mira (I Giardini di Mirò). A voi l'esito e la possibilità di calarvi, gradino dopo gradino, in questo denso, contaminato, elettronico ed elegante mondo sonoro.

In occasione dell’uscita del suo ultimo album, Steps, pubblicato a distanza di dodici anni dal precedente From Dusk to dawn, ho avuto modo di parlare e, successivamente, intervistare, Luca Di Mira, componente del noto gruppo I Giardini di Mirò.

Steps è un bel disco e ringrazio Luca per le risposte anche alle domande “provocatorie”, nel senso etimologico del termine, ovvero (pro) “fuori, avanti”, e (voco) “chiamare”.

Eccoci così nel cuore della musica, ovvero uno dei medium che ti chiama e ti tira fuori dal tuo solito tran-tran per far riecheggiare nell’anima ciò che il cuore è: struggimento di bellezza.

 

 

Ciao Luca, anche se mi pare un esercizio di stile, considerato il tuo curriculum musicale, per i lettori di Loudd che non ti conoscono, puoi raccontarci di te e del tuo percorso musicale?

Ho iniziato a pigiare i tasti neri e bianchi di una vecchia tastiera Eko da bambino anche se la l’innamoramento è durato pochi anni, ma ho avuto in seguito la fortuna di avvicinarmi alla musica come ascoltatore in maniera più approfondita, ed è stata proprio l’esperienza dell’ascolto a farmi scoprire formazioni e artisti e che mi hanno spinto da li a poco, a imbracciare una chitarra e iniziare a pensare di poter costruire un progetto musicale con qualcuno.

Ho suonato in un paio di formazioni nella mia città natale Taranto, dove provavamo a fatica a trovare occasioni per esibirci, nel finire degli anni '80 la Puglia non era così attraente come ora, fatto sta che avevamo lavorato ad un paio di demo tape e in poco tempo eravamo seguiti da un modesto numero di pubblico che ci supportava localmente. Amavamo formazioni come i Sister of Mercy, i Fields of the Nephilim, i Joy Division, ma amavamo anche i Loop, gli Spacemen 3, i Sonic Youth, i Telescopes, Bowie e ovviamente questi individui hanno finito per ispirarci.

Poi un giorno me ne sono andato e diversi anni a seguire, trasferitomi a Reggio Emilia, ho conosciuto Corrado Nuccini con cui ho contribuito a mettere in piedi la prima rudimentale formazione dei Giardini di Mirò, esperienza che è durata qualche anno, alcune esibizioni live e poco altro, finché ho deciso di uscirne.

Avevo iniziato a pensare a qualcosa di mio, mi approcciavo a scrivere qualcosa “da solo” e allo stesso tempo avevo comunque voglia di lavorare insieme ad altre persone. Ho messo insieme un set rudimentale, una chitarra elettrica, una drum machine e un sequencer Roland di fine anni '80 e un altrettanto vecchio expander Roland U110 con i quali ho iniziato a comporre un po’ di materiale, che ho poi girato ad Enrico Fontanelli (che molti anni dopo prese parte al progetto Offlaga Disco Pax), eravamo nella seconda metà degli anni '90, amavo le melodie malinconiche, le chitarre taglienti alla Roland S. Howard e le sonorità elettroniche synth pop anni '80. Abbiamo fatto qualche prova, iniziato a sviluppare qualcosa che mio malgrado è durato poco, neanche il tempo di una prima esibizione live.

Da li a breve, Corrado Nuccini mi ha contatto per chiedermi se avessi voglia di partecipare ad alcune esibizioni con l’allora formazione dei Giardini di Mirò che nel frattempo si era rinnovata nel suo organico, ma questa volta come tastierista, è andata che da pochi iniziali live la cosa si è trasformata in maniera diversa, diventando membro in pianta stabile e da lì ho ripreso a rimettere nuovamente le mie dita sui tasti neri e bianchi.

L’esperienza con i Giardini di Mirò è iniziata intorno al 1998 ed è stata ed è tutt’ora l’esperienza musicale più importante che mi sia capitata, con il quale ho avuto l’occasione di lavorare nella scrittura di 12 album, diversi EP e che mi ha dato l’opportunità di conoscere tanti musicisti anche all’estero. Dopo l’uscita del nostro secondo album Punk not Diet e due anni di tour ho iniziato a sentire nuovamente il bisogno di riprendere a dare forma a un progetto tutto mio ed è così che è nato il progetto “Pillow”, ho iniziato a scrivere un po’ di materiale e poi ho chiesto ad alcuni amici musicisti di collaborare in diversai brani, è nato così Flowing Seasons pubblicato per l’etichetta di Amburgo 2nd Re nel 2006, il mio primo album scritto da me e con il prezioso contributo di Christophe Stoll (Nitrada), Populous, Patrick Zimmer (Finn..), Matilde Davoli, Jaqueline Tune, Lorenzo Lanzi e Corrado Nuccini alla chitarra in un brano.

Parallelamente all’attività con i Giardini ho continuato a scrivere materiale mio che dopo diversi anni sono convogliati nel mio secondo album From Dusk to Dawn pubblicato nel 2012 dall’etichetta berlinese City Centre Offices. Questa volta ho davvero scritto tutto da solo, è stata la mia prima esperienza musicale senza il supporto di nessuno.

Successivamente alla pubblicazione dell’album ho lavorato ad alcune realizzazioni musicali a scopo commerciale realizzando piccoli brani per video, sonorizzazioni, jingles e sound logos, poi ho avuto il piacere di poter lavorare ad una piccola colonna sonora per Made in Heaven, cortometraggio realizzato dal regista e videomaker Alberto Gemmi che metteva insieme una narrazione con frammenti di pellicole tagliate e ritrovate in giro per la Francia, sempre rimanendo in ambito di sonorizzazioni ho lavorato alle musiche per il documentario indipendente Carrettera cartonera delle registe Marta Mancusi e Anna Trento, realizzate nel 2015 e più di recente, un progetto di sonorizzazione di “Regen” di Joris Ivens insieme ad Antonio Tavoni (Angus Mc Og).

E adesso possiamo aprire un nuovo capitolo.

 

Dalla pubblicazione dei precedenti due album Flowing Seasons (2006) e From dusk to dawn (2012) sotto il moniker di Pillow, è passato un lungo tempo, cosa ti ha spinto a scrivere Steps? E perché hai deciso di farlo uscire a tuo nome, abbandonando il precedente moniker?

Steps è nato in un momento molto particolare della mia vita, come poi quella di tutti tra il 2020 e il 2021, stiamo parlando della pandemia, quale miglior ispirazione? Meglio parlarne così, col sorriso sulle labbra, ma è stato davvero questo periodo particolare che ha fatto nascere il bisogno, la necessità e l’urgenza di riprendere a scrivere. Non è che nel frattempo non abbia fatto nulla, ho in qualche modo sempre lavorato anche se ciò che ho fatto è ancora in parte nel cassetto, ma fino ad allora non sentivo il bisogno di dover necessariamente pubblicare qualcosa.

Questo nuovo album esce con il mio nome nonostante il moniker Pillow compaia tra le parentesi. Sento che sono cambiate tante cose: io sono cambiato, il tempo è cambiato e credo che questo nome non mi rappresenti per come sono io adesso, in più, forse fondamentalmente vedo Steps come un album molto personale e intimo che parla di me con nome e cognome e quindi credo sia giusto attribuirgli la paternità più consona.

C’è anche un’altra ragione per cui abbandono il vecchio Pillow, ma è una ragione meno nobile e di natura più commerciale, sulle piattaforme digitali ci sono tanti, tantissimi, forse troppi Pillow, e questo genera casini e appartenenze errate, vedere i tuoi lavori attribuiti ad arti artisti… insomma, direi che è arrivato il momento.

 

In questo disco, rispetto ai precedenti lavori, trovo che la tua scrittura si sia fatta più “densa”, pur rimanendo nel solco del tuo percorso musicale. Sicuramente, come ci siamo detti, il tempo trascorso (e le esperienze occorse) incide nella vita di ogni persona e si riflette, nello specifico, nel metodo compositivo, anche tu hai fatto questa esperienza?

Ci sono due aspetti che come dici tu, hanno generato una scrittura più “densa”, il primo per forza di cose è correlato al tempo, alle esperienze, alla maturità e agli ascolti musicali, la seconda invece è più pensata, meditata e frutto di un lavoro compositivo e di arrangiamento più calibrato, ma non è solo questo.

Quando ho iniziato a scrivere quello che sarebbe stato Steps, volevo mantenere e sviluppare le cose secondo il mio modo di fare musica, partire da quelle che erano state le mie esperienze precedenti e portare la scrittura su un livello superiore, questo è stato per me un “must”, volevo fare ciò che non avevo fatto prima, “dovevo” fare così, ci sono stati molti tentativi prima di arrivare a individuare la strada, poi ad un certo punto le cose hanno iniziato a girare nel verso giusto e in maniera del tutto naturale, le idee fluivano rapidamente e con una grande spontaneità, improvvisavo sul piano e quando individuavo una melodia o una sequenza di accordi, le isolavo e iniziavo a costruirci altro intorno.

Ho scritto tutti i brani in circa un anno. Prima parlavo dell’urgenza di scrivere, posso dire che è stato un lavoro intenso, fatto quasi interamente di notte, mettendo giù prima tutte le strutture e poi poco per volta ho iniziato a scrivere gli arrangiamenti, cercando di dosare le cose senza eccedere nell’aggiungere tracce per paura del vuoto; è una similitudine che io faccio nel mio lavoro quotidiano come graphic designer dove cerco di non riempire uno spazio perché altrimenti risulterebbe vuoto, ma mi impegno nel mettere l’essenziale, ciò che conta davvero con la consapevolezza che a volte anche il vuoto può avere una forza pazzesca.

 

Nel flyer pubblicitario ho letto che i brani dell’album sono stati elaborati nel periodo del Covid. Parlando qualche giorno orsono con un amico, si conveniva che nel parlare comune si parla di pre-Covid e post-Covid, come riconoscendo che questa epidemia sia stata come uno spartiacque. Tuttavia, come ho già avuto modo di scrivere, mi pare che si sia come persa un’occasione: la tragedia, il senso di impotenza, il dolore causato dall’epidemia ha lasciato subito spazio a uno stato d’animo “di ritorno alla quotidianità banale”, nel senso di dire “ripartiamo come se nulla fosse stato”. Ascoltando il tuo album invece mi pare che questo senso di recupero dell’essenziale umano riemerga, sto proiettando delle immagini o ti riconosci in questa descrizione?

In un certo senso credo che tu abbia colto alcuni aspetti importanti. Faccio però una piccola divagazione ma torno subito sull’argomento, credo che come dici tu, abbiamo tutti davvero perso un’occasione che non è soltanto quella di un ritorno alla quotidianità e/o banalità di cui parli, credo che abbiamo perso sotto un profilo “umano”, forse in maniera del tutto ingenua in quel periodo fatto di “andrà tutto bene” e rapporti proiettati attraverso un monitor di un computer, pensavo che una volta usciti da quell’incubo, le persone sarebbero rimaste più unite e solidali, che si sarebbe potuto riscoprire “un’umanità” rinnovata, e invece no, ne siamo usciti più stronzi di prima, più individualisti e meno disponibili verso il prossimo, insomma, una grandissima occasione persa!

Ritornando sulla materia musicale mi riallaccio alla tua domanda rispondendoti che mi riconosco appieno nella descrizione che hai fatto, ci sono degli aspetti nella costruzione sonora di Steps che vanno proprio nella direzione del “recupero dell’essenziale umano”. Il periodo della pandemia è stato fortemente caratterizzato dall’isolamento, Steps è un album che in un qualche modo cerca di elaborare il dolore, di mettere a nudo paure e incertezze, ma non è solo questo perché oltre, c’è fortemente l’amore e il cercare di ricostituire un calore umano, una prossimità in tempi di isolamento.

Da un punto di vista sonoro ho scelto volutamente di registrare quasi tutte le parti di pianoforte cercando di captare anche i rumori naturali che lo strumento produce, è uno strumento meccanico dove il legno scricchiola, i pedali cigolano, ed è del tutto normale che sia così, normalmente nelle registrazioni si cerca di eliminare questi piccoli problemi legati al rumore meccanico, io invece ho volutamente scelto di lasciarli perché sono naturali, lo strumento vive e respira con te  ed è come se l’ascoltatore fosse davanti al piano o come se stessi facendo un piccolo concerto privato.

Ecco, per me questa è un’idea di costruzione sonora come rappresentazione della prossimità che equivale al restituire un sentimento di vicinanza in un momento in cui non era possibile essere fisicamente vicini agli altri.

 

Passiamo ad analizzare qualche brano: non posso non iniziare con “And I’ll be there for you”, che risulta un chiaro esempio, mi sembra, del tuo fare musica, ovvero quello di far interagire la strumentazione di stampo classico con l’elettronica, ne convieni?

Mettere insieme strumentazione più classica con quella elettronica è da sempre qualcosa che mi affascina e che contraddistingue le cose che ho fatto e che faccio, poi nel caso di “And I’ll be there for you” che è sostanzialmente una canzone d’amore, non poteva non essere un incontro tra i due mondi.

Non è scritta a tavolino, per me in un certo senso è naturale così, difficilmente riesco ad essere totalmente classico o totalmente elettronico, penso che ci debba essere sempre un’anima umana alla guida delle macchine! Non faccio sperimentazione sonora ma mi interessa molto l’idea di contaminare, di aggiungere del classicismo a delle sequenze elettroniche o di sporcare delle melodie malinconiche suonate col pianoforte, cerco di allontanare le soluzioni scontate ma non sempre mi riesce, mi ci impegno però. Ho un debole per i primi rudimentali sintetizzatori degli anni '30, dal trautonium di Oskar Sala all’Ondes Martenot, oppure alcuni personaggi che hanno fatto sperimentazione elettronica negli anni '60 o '70, pur amando tantissima produzione elettronica contemporanea, se penso ad esempio a Delia Debyshire non posso che rimanere stupito da ciò che è riuscita a fare con i nastri magnetici! Mi piacerebbe in futuro riuscire ad introdurre questo genere di approccio sonoro in contesti più classici, vedremo.

 

Parliamo di “En-Mor Mood”. Perché questo titolo? Lo trovo uno dei pezzi più intimi dell’album, l’utilizzo del piano in alcuni punti mi ha fatto tornare alla mente le Gymnopedies di Satie che ritengo uno dei classici ante-litteram di tutta la musica ambient. Ce ne vuoi parlare?

Eh, sapevo che sarebbe arrivato il momento, ma tanto prima o poi qualcuno l’avrebbe chiesto e questo qualcuno sei tu.

Nonostante non credo di meritare così tanto apprezzamento per il fatto che certi passaggi facciano riecheggiare in te Satie, non posso che ringraziarti e concordo sul fatto che il brano in questione è sicuramente il più intimista dell’album, tuttavia più che Satie, ho da subito sentito un’assonanza di certi passaggi con alcune melodie di stampo più morriconiane ma non so dirti nulla di più preciso, per cui in prima battuta “En-Mor” possono essere viste come le iniziali del compositore sopracitato.

Ma non è solo questo perché “En-Mor Mood” è per me il brano più nero di quest’album, nero perché nel momento in cui lo scrivevo non vedevo davanti a me e alla mia famiglia un futuro certo, c’erano solo incertezze e incredulità e la paura che prima o poi potesse toccare a qualcuno di noi, erano i momenti iniziali in cui si leggevano le notizie delle gravi conseguenze della primissima ondata della pandemia, quindi si, “Mor” sono le prime 3 lettere della parola “Morte”, quindi posso dirti che il titolo poteva essere “nel mood della morte” ma forse così suonerebbe come un brano Death Metal e non è il caso.

Potrebbe esserci una duplice lettura però, sul finale, in un momento che ti induce a pensare che il brano sia finito, c’è una coda che mi fa immaginare un movimento ascensionale, un moto verso qualcosa di spirituale, non necessariamente religioso, o come anche un risollevarsi dopo una caduta.

 

“Storms” con il suo loop di synth mi richiama alla mente paesaggi “dark ambient”, su quale corda dell’animo si basa il brano?

Diciamo che se Steps rappresenta una sorta di percorso personale all’interno dell’esperienza della pandemia, “Storms” costituisce il momento di impatto più forte, quantomeno su un piano prettamente emotivo.

È un immaginare l’arrivo di qualcosa di minaccioso e sinistro e per questo ho cercato di costruire un brano con delle sonorità scure e robuste e con una struttura circolare che rendesse un senso di potenza e allo stesso tempo che non desse un’idea di via d’uscita, una sorta di centrifuga lenta la cui intensità potesse crescere giro dopo giro. Dal vivo ha una potenza ancora più forte ed è il brano che ho scelto per chiudere il live.

 

“Our silent place” quale è il nostro luogo silenzioso e cosa rappresenta per te?

Il luogo silenzioso è la mia casa, il posto in cui ho vissuto principalmente l’esperienza della pandemia e dove ho composto quasi tutto l’album. Nel periodo tra il 2020 e 2021 mi sono rifugiato con la mia famiglia in un piccolo appartamento sulle colline reggiane dove solitamente andiamo nei mesi estivi, un piccolo paesino tranquillo circondato dalla natura, da boschi e colline.

“Our Silent Place” è anche un luogo dove ti senti al sicuro, protetto da qualsiasi minaccia esterna, è il posto da cui guardare ciò che succede all’esterno, è il posto in cui avvolto nella natura si respira aria di speranza, il posto adatto per abbracciarsi e tenersi stretti l’un l’altro, dove ci si aggrappa per resistere.

Nell’artwork dell’album, nella penultima pagina del booklet ho voluto includere un piccolo scatto che ritrae uno scorcio dello studio che avevo allestito al tempo, lì si intravede un pianoforte, è un piccolo ricordo che ho voluto fissare per ricordarmi dove sono nati i brani dell’album.

 

Il disco è stato masterizzato presso il Black Knoll Studio di Rafael Anton Irisarri. Ritengo che le produzioni ambient di questo artista siano molto interessanti e difatti ne possiedo una nutrita discografia. Perché questa scelta? Cosa ti ha spinto in questa direzione?

Stimo moltissimo Irisarri anch’io per le stesse motivazioni, è un artista che desta il mio interesse sotto diversi aspetti, parlo non solo dei suoi album, ma anche di altri progetti di cui fa parte o ha fatto parte, dai The Sight Below, fino alle più recenti collaborazioni con Benoît Pioulard a nome Orcas oppure con il musicista italiano Guido Zen, conosciuto come  Abul Mogard. Ma lo stimo anche come Mastering Engineer, mi piace il suo approccio e quando ho scoperto di possedere alcuni degli album sul quale ha messo mano, Alva Noto & Ryuichi Sakamoto, Driftmachine, Clarice Jensen, Loscil, Lawrence English… ho pensato di contattarlo per chiedergli di realizzare il mastering dell’album.

Una delle motivazioni che mi ha fatto scegliere di lavorare con lui è il fatto che Rafael lavora solo su progetti che apprezza, non è interessato a mandarti la fattura e quindi è un rapporto alla pari, ovviamente questo inizialmente ha suscitato in me una certa apprensione, ma è andata che mi ha chiesto di poter ascoltare l’album prima e successivamente ha accettato.

Ho chiesto a lui di fare un’interpretazione personale, di dare un’impronta sonora, di aggiungere del colore in più e quando mi ha rimandato indietro l’album ho percepito una ricchezza e qualità del suono notevole. Credo abbia fatto un lavoro importante, gliene sono grato.

 

L’ultima domanda riguarda l’artwork di Steps, la cover è difatti un fotogramma dell’opera statuaria Monumento dei cuori strappati, realizzata da Witold Ceckiewicz nel 1964, quel taglio all’altezza del cuore mi ha profondamente suggestionato, come se il cuore di ogni uomo avesse dentro una ferita che chiede di essere sanata. Cosa ti ha spinto a sceglierla come cover dell’album? In ultimo quando uscirà il disco/cd e sono previste diverse releases?

Nell’estate del 2021 mi trovavo a Cracovia in vacanza e mentre cercavo informazioni su cosa poter visitare in città, mi sono apparse alcune immagini di quest’opera che mi anno colpito fin da subito, così ho deciso di andarlo a visitare e non solo per il fascino che suscita in me certa scultura e architettura di epoca socialista, ho sentito che c’era qualcosa di più profondo. Una volta sul posto ho scattato diverse immagini, cercando le inquadrature giuste e i tagli più interessanti, ho camminato lungo le zone limitrofe, mi sono informato sulla storia del posto e conosciuto le origini di quella scultura.

Il “monumento ai cuori strappati” è un’opera commemorativa dello sterminio della popolazione ebraica operato per mano dei nazisti che sorge su una collinetta all’interno dell’area di quello che una volta era una campo di lavoro prima e poi trasformato successivamente in campo di concentramento in cui i nazisti avevano deportato parte della popolazione ebraica residente a Cracovia durante la seconda guerra mondiale, tutto intorno al monumento è tranquillità, pace, silenzio, siamo in un parco, la natura ha avvolto quel poco che resta di ancora visibile del campo, come per coprire quella vergogna.

Il monumento raffigura cinque figure umane disposte in fila e sormontate da un grosso blocco di pietra che spinge verso il basso la testa delle figure, all’altezza del petto presentano uno squarcio che li passa da parte a parte e questo fa un effetto impressionante soprattutto quando ci sei vicino fisicamente. Guardandolo frontalmente, lo squarcio è anche un segno grafico che da sinistra verso destra segna un percorso, così, colpito dalla forza e dalla sofferenza che quest’opera trasmette anche attraverso i volti e le posture delle figure, e insieme a questa idea di percorso, ho trovato per certi aspetti una similitudine forte con il contenuto dell’album.

Il titolo Steps è generato da questa idea di percorso e i passi sono le tappe di esso rappresentate da ogni singolo brano. Ad un certo punto ho realizzato che tutto era chiaro ed era sotto i miei occhi, i brani fino ad allora, pur ultimati avevano ancora nomi provvisori come “Song A, Song, B…” ma facendo un parallelismo tra l’opera e l’esperienza vissuta nel periodo pandemico ho iniziato a considerare che tutto potesse avere un senso narrativo, mi si è presentato davanti in maniera del tutto casuale e inaspettato, ho iniziato a ripercorrere i momenti e i periodi in cui ho scritto i brani e così sono nati i titoli, il brano “Steps”, ad esempio, è caratterizzato da una nota di piano che segna il passo dall’inizio alla fine, quando l’ho scritto non avevo ancora in mente tutto questo.

Quando è stato il momento di lavorare alla realizzazione dell’artwork ho dato le immagini che avevo scattato a Cracovia a Gabriele Fantuzzi di Delicatessen Design Studio, che si occupa di tutti gli artwork delle pubblicazioni dell’etichetta Rizosfera, chiedendogli di interpretarle cromaticamente, di creare un collegamento visivo tra l’opera e la musica, il risultato è ben rappresentato tra le pagine del booklet di 12 pagine della versione chiamiamola così’ “Deluxe”.

L’album è stato pubblicato il 20 settembre sulla piattaforma RizoStream all’indirizzo rizo.stream che è la piattaforma digitale proprietaria dell’etichetta Rizosfera e attraverso di essa e il loro sito web è possibile acquistarlo sia in versione digitale che in versione fisica in 3 formati, CD Digipack in formato A5, CD Digipack + booklet (formato cover vinile) da 12 pagine e una terza versione che li include entrambi, tutte le versioni fisiche danno accesso allo streaming digitale gratuito su rizo.stream. Dagli inizi di novembre l’album sarà poi presente su tutte le maggiori piattaforme e in formato fisico nei negozi attraverso la distribuzione Audioglobe e ZdB.