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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
15/01/2025
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Lamante
Una chiacchierata con Lamante che è bellezza e voce di una generazione, quella dei ventenni nati tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila, quelli che non si arrendaono e lottano con poesia per un mondo migliore, anche se l'immaterialità (e non solo) lotta continuamente con loro per rubarglielo.

Al solito, nelle interviste io voglio scomparire subito. Dico solo una cosa: bellezza attrae bellezza, ed è un meccanismo applicabile anche alle persone.

È una chiacchierata, questa con Giorgia, che abbiamo fatto a metà dicembre, e in cui, per uno strano e straziante scherzo del destino, ritorna spesso (anche fuor di microfono) Paolo Benvegnù, a conferma di quanto sia stato “luce invisibile” per tutti noi. Non lo so, rimarrà una ferita aperta per un bel po’ di tempo ancora, ma il poterci consolare tutti insieme, riuscire a ritrovarlo da qualche parte, in polvere di stelle nello spazio profondo, è una cosa che mi riscalda molto.

Detto questo, In memoria di (qui il link alla recensione), l’ho detto e lo ripeto, è il disco che aspettavo da quando ho cominciato a scrivere di musica. Finalmente canzoni che arrivano come sberle e un senso di necessità che ti corrode la bocca dello stomaco. E, nell’aver parlato con Lamante, la cosa che mi ha fatto piacere più di ogni altra è stato notare che c’è un’ aderenza praticamente totale fra le canzoni e chi le canta, una adesione così muscolare, quasi selvaggia, che mi ha rasserenato, chè in un panorama di canzoni e artisti preconfezionati, parlare con gente del genere è una boccata d’aria.

Quindi grazie per tutto.

 

Solita domanda rompighiaccio: qual è (se c'è, ovviamente) secondo te, il rapporto fra la forma canzone e la letteratura? Sono due cose appartenenti alla stessa famiglia, sono cose che non c'entrano completamente…

No, secondo me c’entrano eccome. Mentre scrivevo l'album ho letto tantissimi libri, e sono estremamente legata alla letteratura, mia madre è laureata in filosofia e mi ha fatto veramente leggere tantissimo, oltre che di filosofia anche proprio romanzi. Per esempio uno scrittore a cui mi ispiro moltissimo è Jodorowski, e quindi tutto quello che comporta la costruzione letteraria del realismo magico. Mi piace, in un certo senso, prendere delle regole, cercare di estrapolare e portarle in canzone. Ma poi in realtà tutte le arti che compongono la scrittura, da un certo punto di vista, sono legate. Poi, per esempio, magari la poesia è molto più legata alla musica perché deve avere anche una cadenza, come una canzone. Però in realtà anche nella letteratura, nel suo processo, che a differenza di una canzone è molto più dilatato: è come se fosse una canzone, ma dispiegata mille e mille volte.

 

Prima, scambiando due chiacchiere, citavo Vasco Brondi perché quando l’ho ho sentito per la prima volta, quello che mi è arrivato (sarà stata, forse, anche influenza di questo modo di cantare quasi urlato) era sicuramente una forte esigenza che c'era dietro le canzoni. In “Annamaria” tu canti “Mi serve un'emozione come all'umanità serve pace”, che è un verso estremo, passami il termine, così come ho trovato estremo l’intero disco, e mi è piaciuto un sacco per quello. Arrivo al discorso della musica come necessità personale: è molto egoistico il mestiere del cantautore o cosa?

Allora, guarda in questi giorni qua, stavo proprio ragionando su questa cosa, perché (hai citato Vasco Brondi) è una persona che sto frequentando molto in questo periodo, così come anche Appino, Motta, Dente, e mi capita, magari, di trovarci e parlare di musica, e una cosa di cui mi sono accorta ultimamente è che il nostro il nostro ambiente è composto da uomini e donne sole, che parlano d'amore, ed è incredibile questa cosa qui se ci pensi, no? Ed è molto difficile riuscire a coincidere con le relazioni umane e quelle artistiche, perché effettivamente il mestiere del cantautore può essere visto dalle persone che vivono con te come un mestiere molto egoista.

Noi siamo come degli sciacalli, mi sento molto in colpa per questa cosa: tipo io, in ogni relazione che vivo, cerco di prendere per poter portare musica, però è una cosa che mi è necessaria, perché non ho altri tipi di linguaggi per poter esprimere quello che sto vivendo, quindi magari alla persona che vive la vita privata del cantautore può sembrare un modo egoista di vivere la vita, però penso anche che l'output, quello che esce fuori, le canzoni, che poi vengono condivise, ascoltate, non lo siano più, un qualcosa di egoista. Alla fine il mestiere del cantautore, da un certo punto di vista, siamo noi che ci diamo al mondo e proviamo a parlare del presente, di quello che sta succedendo.

 

Come se le canzoni appartenessero totalmente a chi le ascolta, anche a gente completamente distante…

Sisi, io mi sento continuamente una partoriente, che porta in grembo un figlio che però, comunque, non è suo. Cioè, sono solo un mezzo, un corpo, per poi poter dare e donare.

 

Questo mi ricorda tanto Paolo Benvegnù, perché anche lui mi faceva questo discorso, di sentirsi costantemente incinto, che, fra l’altro, detto da un uomo è ancora più bello. Diceva che è come se risolvesse la sua maternità delusa in qualche modo con le canzoni, come se riuscisse a sublimare la sua parte femminile con le canzoni. E, in qualche modo, la domanda successiva si ricollega un po’ a questo: c'è la necessità di un dolore per scrivere un disco del genere?

Penso proprio di sì. Nel disco che ho scritto c’è molto dolore, c’è molta violenza, c’è anche molta rabbia, cosa che non pensavo fino agli ultimi giorni prima che uscisse. Perché all'inizio, mentre lo scrivevo, pensavo, in un qualche modo, di stare con conservando tutto quello che ero stato, e invece, alla fine di tutto questo processo, mi sono accorta che in realtà non stavo conservando, anzi, stavo proprio distruggendo, era proprio recidere con venticinque anni della mia vita, facendo anche quello che ho definito un tradimento: il mio album è un tradimento, perché comunque la mia famiglia è costernata da figure maschili importanti, diciamo che tutta la parte artistica della famiglia è sempre stata tramandata dagli uomini, e quindi il fatto di fare questo album qua di parlare delle donne della mia famiglia, e di aver preso questa tradizione, di averla portata in me, per me è stato tradire un “cerchio”, per così dire, e quindi lì ho capito che, cazzo, in realtà era estremamente seguito da un dolore, da una violenza, da una rabbia, come se fosse una reazione a tutto questo.

 

Ecco, la domanda successiva era proprio incentrata sul perché della violenza, quando dici “Nella mia testa proiettili e parole stanno bene insieme”, che è un incipit clamoroso, per qualsiasi cosa, ancora di più per un album. Diciamo che, in qualche modo, hai già risposto al perché di questa violenza.

Mettiamola così: se, come ti dicevo, da un certo punto di vista sono costernata da figure maschili, appunto, “pesanti”, dall'altra parte, nella mia famiglia, ho avuto anche delle donne incredibili e la maggior parte di loro, essendo nate, parlo per esempio di mia zia, negli anni '50, fine anni '50, avevano questa figura del padre-padrone che era qualcosa di estremamente soffocante. Ed è incredibile come le violenze passa arrivino fino a te. Cioè io mi sento estremamente legata alla storia di mia zia, alla storia di mia madre, alla storia di mia nonna, e a tutte quelle violenze che loro hanno subito non solo, magari, della figura del marito, del nonno, del padre, ma anche proprio dalla società, dal contesto storico, sociale. Ecco, quel vissuto lì io l’ho respirato tantissimo.

 

Perché dici di essere un’anarchica mancata? La dico meglio, perché secondo me, il tuo, è un disco davvero pieno d'amore. E però penso anche che cantare l'amore sia la cosa più anarchica che ci possa essere.

Si, si, lo è! Sono mancata perché, come ti dicevo prima, siamo un ammasso di uomini e donne soli e sole, che sono lì che parlano d'amore. È incredibile come io riesca a scriverne, ma non riesca a viverlo, o quantomeno a viverlo come vorrei, ad avere delle relazioni in cui mi sento libera di poter esprimere il mio amore. Una cosa di cui mi sono accorta, quando dico, appunto, un’anarchica mancata, perché le persone intorno a me si innamorano, la maggior parte delle volte, per la mia libertà, per il mio essere libera, quasi fosse un feticismo. Però è anche la cosa di cui hanno più paura, e quindi per me è difficile, perché magari con quella persona ci vorrei stare, e finisce che devo cercare di trovare un compromesso, qualcosa per potermi avvicinare, perché so di essere una persona estrema. E quindi, nei fatti, nella pratica, mi ritrovo ad avere dei problemi, ecco.

 

Ritorno alla violenza. Hai scritto un paio di versi stupendi che, fra le altre cose, mi hanno fatto versare la loro ottima dose di lacrime, quando canti “Vorrei che il mio prossimo nome fosse giardino, così quello che cresce anche quello che sono”, che mi hanno fatto ripensare ad un'altra cosa di cui parlavamo sempre con Paolo, che faceva un discorso legato alla violenza della nascita: la nascita di una nuova vita è un atto violento in qualche modo. Anche in questo caso l’accezione può essere quella lì?

Beh certo, la nascita di per sé è un atto molto violento. E anche un atto egoista, perché comunque quelle due persone che ti hanno concepito, che ti hanno dato la vita, ti danno anche la morte, che è qualcosa che ti porterai per sempre, una paura. Poi, per carità, è la paura che muove il mondo, secondo me. Però è comunque una cosa con cui devi fare i conti, che devi saper approcciare. E quindi sì, è un atto egoista e violento. Quel verso lì l'ho scritto perché tante volte, nella mia vita, mi sono accorta (io o anche le persone intorno a me) di essere l'idea di quello che volevo essere, e non tanto essere me e basta, mentre le piante, la vegetazione, gli alberi insegnano qualcosa di incredibile: loro nascono in un punto, e non si spostano mai da lì, rimangono sempre in quel punto. E crescono e muoiono sempre in quel punto lì, non hanno necessità di altro, se non di stare su quella terra, in quel determinato punto lì, e di essere semplicemente quello che sono.

 

Invece quando canti “Io non muoio, se una poesia mi gela il sangue”, mi ha fatto venire in mente, per chissà che pensiero associativo, all’ “Emanuel Carnevali, morto di fame nelle cucine d'America” dei Massimo Volume, a quando Mimì Clementi, con una capacità di sintesi folgorante e formidabile, chiosa con “Scrivevi, e c’era forza nelle tue parole”, e alla capacità di piazzare ogni parola al posto giusto, e ancora di più, di trovare la parola che, di volta in volta, riesca ad essere (perdona l’aggettivazione impropria) definitiva, quella precisa e muscolare allo stesso tempo. Ed è, questa, una cosa che in In memoria di arriva praticamente ad ogni verso. Come hai fatto a centrare un equilibrio del genere?

Allora, quella frase lì, quando dico “Io non muoio se una poesia mi gela il sangue”, nasce perché ero andata in libreria e mi era capitato di sfogliare questo libro di poesie, che si chiama Ciao cari, di Stefano Guglielmin, che è un poeta di Schio, ed erano tutte poesie dedicate alla generazione scomparsa di Schio, negli anni '70. C'è stato proprio un buco di persone morte di eroina e di AIDS.

 

La “droga di Stato” degli anni ’70.

Esattamente. E praticamente, a un certo punto, sfogliando, trovo una poesia dedicata a mia zia. E io in quel momento mi sono sentita malissimo, cioè mi ha proprio il gelato il sangue. E allo stesso tempo pensavo "Cazzo, che privilegiata che sono in questo momento": mia zia è morta e io sto piangendo di una poesia che parla della sua morte, ma io comunque sono qua, sono in piedi, rimango qui. E quindi quella frase era per quello.

Riguardo al bilanciamento di cui tu parli, in realtà Taketo in questo è stato un maestro. Nel senso che io tutti i pezzi che ho scritto, come hai percepito anche tu, li ho scritti proprio per necessità, quindi senza pensare minimamente a quello che stavo scrivendo, per chi, per cosa, senza chiedermi che cazzo volesse dire quella canzone. Tanti pezzi li ho “scoperti” dopo, ho scoperto dopo di chi parlavano, di cosa parlavano. Ma Taketo, ogni pezzo che ho scritto, riusciva a precedermi sempre, sempre. Lui sapeva già per chi era, sapeva già di che cosa stava parlando, sapeva già dove quel pezzo sarebbe potuto andare. E quindi fidandomi di lui (e grazie a lui ho scoperto il sentimento della fede, che prima non avevo), mi ha come “contornato” le parole, magari alle volte stroppiavo, oppure alle volte c'era quella sola parola che, cambiata, dava ancora più significato a quello che volevo dire. E quindi, grazie a lui, sono riuscita a bilanciare la mia necessità di dover dire col saper trovare il giusto peso alle parole per poterle farle arrivare ancora meglio.

 

Rimango sui testi: quando canti “Ho perso la verginità in un palazzo popolare, l'ultimo piano sgretolato come il mio cuore” mi hai ricomposto in mente paesaggi da posto ristoro del Tondelli di Altri Libertini. Parto da lì: quando ho letto Altri Libertini la prima cosa che ho pensato è stata che è stato scritto nell’84, ma riesce a essere quasi più generazionale adesso, rispetto a quando è uscito. E se questo discorso si applicasse al tuo disco? Mettiamola così, è riuscire a essere generazionale come lo è stato anche, citando qualcun altro che abbiamo già citato, Vasco Brondi, che secondo me è stato IL cantautore generazionale degli anni ’10, i quarantenni di oggi si rivedono pari pari nella canzone delle Luci della Centrale Elettrica. Esco dal “giornalismo” e te lo chiedo, praticamente, da coetaneo: forse la nostra generazione manca di qualcuno che la racconti in maniera chirurgica.

Beh, allora, riguardo a Vasco, tra l'altro ha fatto un concerto all'Alcatraz, qualche settimana fa, per il decennale di Costellazioni, ed è stata un'emozione incredibile, perché, appunto, c'era la generazione di Vasco, e vederla con le mani alzate, a cantare tutti i pezzi, mi ha proprio fatto rendere conto di quello che dici tu, di quanto sia stato rappresentativo di una generazione.

 

Io ne sono convintissimo. Molto più dei vari Calcutta e tutti gli altri: quello degli anni ‘10 è Vasco Brondi, punto. Non si scappa, la totale assenza di qualsiasi prospettiva l’ha raccontata lui.

Però ecco, era una generazione che aveva ancora bisogno di materialità, di corpo, di carne e di sangue. Noi stiamo andando da tutt'altra parte, cioè stiamo andando nell’immaterialità, e quindi avere una persona rappresentativa di una generazione che sta andando nell’immateriale non ha senso.

 

E invece avere delle canzoni, che forse, sempre citando Paolo, sono l'inutilità, o meglio ancora, l'essere superflui.

Eh sì beh, ne siamo pieni. Siamo praticamente rappresentati da quelle.

 

Essì, però da quelle sbagliate!

Da quelle sbagliate per noi, che probabilmente non ci vogliamo arrendere a questa generazione qua, a questo momento storico che stiamo vivendo. Per noi sì che sono sbagliate, perché è sbagliato come noi percepiamo che le persone stiano vivendo, o che stiano andando verso ‘sta direzione quasi disimpegnata. Però in realtà penso che per le persone, quantomeno per la maggior parte di loro, sono giuste.

 

E quasi siamo noi ad essere sbagliati.

Ma sai, forse non è neanche il fatto che siamo sbagliati. Per esempio, ti dico una cosa che mi fa super paura: ho letto che hanno aperto la prima etichetta discografica di cantanti fatti con l’AI.

 

Una bella merda…

Una bella merda, ma non si poteva che andare verso quella parte lì. Però sono anche convinta di una cosa, che secondo me è anche una cosa umana, e anche nella politica si vede: quando si crea un potere forte, c'è sempre un contropotere che si crea. Io per esempio quando ho fatto questo album, non avevo nessun tipo di aspettativa, nè speranze, un cazzo: siamo usciti senza etichetta, proprio punkabbestia allo stato puro; uno dei primi articoli usciti sul disco, mi ricordo, scriveva “Questo è un suicidio discografico”, lo avevano definito così.

Però hai capito? Cioè siamo usciti, e di donne, di cantautrici, che ruotano nel mio genere ce ne sono talmente poche che non c'è un mercato e che, di conseguenza, non ci sono nemmeno delle regole a cui sottostare. E, per me, questa è una grandissima forza. E quindi questo mi dà estrema speranza: se da una parte, adesso, ci sono questi cantanti fatti con l’AI e l'elettronica e cazzi e mazzi, ci sarà sempre, e sarà sempre più forte, la presenza di persone che avranno voglia di sentire delle cose suonate, di sudare, di piangere, di stare in mezzo alle altre persone.

E sai cosa, la prova è proprio il posto da cui vengo io, Schio, altovicentino, che dal postpandemia pullula di gruppi che suonano. Pochi giorni fa su Rockit è uscito un pezzo in cui, a un certo punto scrivono qualcosa tipo “Pensiamo che due anni fa sia caduta una pioggia strana nell’altovicentino”, perché effettivamente siamo tutti gruppi che suonano, suonano fisicamente, ecco. E secondo me è la nostra forza, ma anche la forza del progetto Lamante è quella lì, che prima siamo andati sul palco, poi in studio. E secondo me questa cosa si sente, e le persone ne hanno bisogno. Almeno tanto quanto le altre hanno bisogno del nulla dell’AI e cazzi del genere.