Vero che siamo in un’epoca storica in cui vanno di moda i ritorni, spesso sull’onda di una nostalgia che, anche dal punto di vista commerciale, sembra funzionare meglio delle proposte artistiche focalizzate sul presente. Eppure, un ritorno dei La Crus non era contemplato ed è stato accolto nella scena musicale italiana come una sorta di fulmine a ciel sereno.
La band milanese sembrava aver esaurito piuttosto naturalmente il suo ciclo già all’indomani di Infinite possibilità, il disco che, a dispetto del titolo, metteva la parola fine ad un discorso artistico che ha avuto solo una breve appendice con la partecipazione a Sanremo nel 2011 (il brano in gara, “Io confesso” è stato ora riproposto in una nuova versione con il featuring di Carmen Consoli). Da allora ci sono stati tanti progetti solisti, che hanno visto i tre componenti crescere in parallelo e acquisire maggiore consapevolezza nei propri mezzi. Mauro Ermanno Giovanardi, Cesare Malfatti e Alex Cremonesi non hanno mai smesso di scrivere e produrre musica, ma parevano ormai essersi lasciati alle spalle la loro creatura comune.
E invece, contro ogni aspettativa, ecco Proteggimi da ciò che voglio, che arriva a quasi vent’anni di distanza ma che, paradossalmente, si pone in diretta continuità con tutto quello che i La Crus hanno inciso in precedenza. Se si eccettuano un paio di elementi inediti (la produzione ad opera di Matteo Cantaluppi, la partecipazione di Vasco Brondi in “La rivoluzione”), la sensazione di familiarità e di ritorno a casa è veramente forte; acuita, particolare in più, da un opener come “La pioggia”, che ripropone con inusitata assertività un’impronta sonora che, per il sottoscritto così come per migliaia di ascoltatori, abbiamo amato alla follia tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila.
Impossibile, e direi anche piuttosto inutile, fare supposizioni sul futuro. Quel che è certo è che qui la nostalgia c’entra poco e che Proteggimi da ciò che voglio è un disco che parla al nostro presente come pochi, un disco che potrebbe anche essere arrivato fuori tempo massimo, ma di cui c’era comunque un tremendo bisogno.
Ne abbiamo parlato al telefono con un disponibilissimo Mauro Ermanno Giovanardi.
Quando avevo intervistato Cesare Malfatti in occasione del ritorno in scena di Mentre le ombre si allungano, era stato molto chiaro sul fatto che non si trattava di una reunion dei La Crus, lasciando anche intendere come una simile ipotesi fosse piuttosto improbabile. Che cosa vi ha fatto cambiare idea?
La prendo un po’ larga: l’idea di riportare in teatro Mentre le ombre si allungano parte dalla direzione artistica che mi era stata affidata, di un festival che si chiamava La mia generazione e che si teneva ad Ancona; era piuttosto vicino, come spirito e idea, al Festival della Letteratura di Mantova, con tanti appuntamenti durante la giornata, incontri, presentazioni, concerti e varie declinazioni della musica. Uno degli appuntamenti a cui avevo pensato si chiamava A quasi mezzanotte un film. Il primo anno avevo invitato i Marlene Kuntz, che all’epoca giravano con due sonorizzazioni di film muti degli anni ’30, due set completamente diversi. L’anno dopo, era il 2019, mi stavo scervellando per capire che cosa avrei potuto mettere all’interno di questo format e ad un certo punto mi sono detto: “Ma noi abbiamo fatto all’epoca una cosa super avanguardistica dove c’erano dentro musica, poesia, teatro…” e così ho chiesto a Cesare se avesse voglia di rifare Mentre le ombre si allungano, apposta per il festival. Ed è andata così bene che lo abbiamo replicato arrivando, se non erro, a 14 date. Bene, in una di queste, a Parma, è venuto anche Marco Tagliola, che era stato il nostro fonico in passato. È stata una serata bellissima, con un pubblico molto caloroso e, forse sull’onda di questo entusiasmo, poche settimane prima del primo lockdown, ci ha “obbligato” a fare una cena con me, Cesare e Alex. Lì ci ha detto: “Comunque, lì allo spettacolo ho sentito così tanto affetto, così tanto amore, così tanta voglia di La Crus, che se non provate a fare qualcosa siete dei coglioni!” (risate NDA). Così, chiaro, esplicito.
E quindi non avete avuto scelta…
Ci siamo detti: “Facciamo una cartella su Google Drive e ci mettiamo dentro musiche, melodie, testi, suggestioni di tutti i tipi, e vediamo cosa viene fuori. Se esce qualcosa di interessante bene, altrimenti non ne vale la pena per nessuno”. Io all’epoca avevo un disco già finito, masterizzato, a cui stavo lavorando, per cui forse ero quello più in dubbio di tutti. Però poi abbiamo iniziato a metterci sotto (anche perché nel frattempo eravamo in lockdown, di tempo ce n’era) e ci siamo accorti che c’era del materiale bello, per cui siamo andati avanti. In realtà poi, dopo un anno e mezzo di lavoro, era già il 2021, ci è venuto in mente come mai i La Crus si erano sciolti (risate NDA)! Abbiamo quindi messo tutto in standby, io sono andato avanti col mio disco, finché Valerio (Soave, fondatore e responsabile della Mescal NDA) mi ha convinto a tornare su quel progetto, cercando una strada per chiuderlo. I pezzi infatti erano al 50-60% ma io e Cesare avevamo idee diverse su come andare avanti. Ed è dunque a questo punto che ci siamo rivolti a Matteo Cantaluppi.
Ecco, appunto, te l’avrei chiesto io. In quale misura ha contributo al disco?
Quelli sperimentali li ha lasciati così com’erano, li ha più che altro rifiniti, mentre invece ha dato una sua impronta a quelli basati sulla forma canzone, contribuendo a farli venire fuori di più. “Proteggimi da ciò che voglio”, “Mangia dormi lavora ripeti”, “Discronia”, “La rivoluzione”, sono quelli dove si sente di più la sua mano. Poi, ovviamente, si è occupato del missaggio di tutto il disco. Il suo contributo è stato decisivo perché si trattava di una persona “altra” le cui proposte (è una regola che ci siamo dati) abbiamo dovuto accettare, in modo che né io né Cesare fossimo quelli che prendevano le decisioni finali. È stato un escamotage per chiudere il disco, certo, ma devo dirti che avere a che fare con una persona esterna che ha a che vedere col tuo lavoro, non fa mai male: a volte si è talmente coinvolti in un determinato progetto, che si fa fatica ad avere uno sguardo obiettivo.
È interessante perché Matteo normalmente è associato ad un certo tipo di produzioni mainstream però ha tutto un suo lato di compositore elettronico.
In più lo conosciamo da tantissimo tempo, pensa che avevo fatto con lui un brano di Babalot…
Ma dai? Questa me l’ero persa!
Tra il primo ed il secondo disco Aiuola (l’etichetta di Babalot NDA) fece uscire un EP con i rifacimenti di alcuni brani dell’esordio. In quell’occasione feci un brano prodotto assieme a Matteo, che si chiama “Ma che ti ho fatto”. Matteo ha sicuramente iniziato facendo delle cose più alternative ma ci ha sempre detto che i primi tre dischi dei La Crus gli piacevano tantissimo. Nella prima riunione che abbiamo fatto, quello che mi è piaciuto davvero, oltre al fatto che ci ha confessato che lui era un super fan dei La Crus, è quest’altra cosa: “Ho talmente rispetto della vostra storia – ci ha detto – che non vi dico: facciamolo. Cominciamo a lavorare su due o tre pezzi, se trovo un’estetica che mi piace e che mi sembra giusto per voi, facciamo il disco, altrimenti no. E lui stesso, proprio ieri che abbiamo presentato Proteggimi da ciò che voglio in Svizzera, ha detto che anche lui aveva bisogno di fare un disco così, nel senso che probabilmente lo chiamano per fare cose molto più mainstream ma lui ha una natura molto più sperimentale, anche nelle cose che fa come Carver (il progetto in duo con Marco M. Colombo NDA).
Una bella fortuna, che vi siate trovati così…
Delle volte ci vuole una congiunzione astrale perché succedano delle cose. E dunque, i quattro pilastri che tengono in piedi questo disco sono: sicuramente tutto il lavoro iniziale con il marchio La Crus, questi due anni e mezzo di lavoro in questa veste; le esperienze che abbiamo fatto dallo scioglimento fino ad oggi, ovvero più di quindici anni in cui ciascuno di noi tre ha fatto le proprie cose; l’intervento di Matteo che ha in qualche modo preso tutto questo materiale, lo ha sintetizzato, ne ha tirato fuori il meglio e gli ha dato una veste più contemporanea; il quarto pilastro è stato la Mescal, che ci ha creduto. Quale etichetta oggi investe decine di migliaia di euro in un progetto che non aveva neanche un profilo su Instagram (risate NDA)? Ecco, se fosse mancato anche uno solo di questi pilastri, questo disco non sarebbe uscito.
In parte lo hai già detto, ma mi piacerebbe che affondassi un po’ di più su questo punto: in che modo voi tre vi siete divisi il lavoro, nello specifico?
Ci ha messo tanto Alex, questa volta. Di solito funzionava che Cesare tirava giù degli strumentali in studio e io mettevo le melodie, cosa che spesso facevamo anche insieme, e poi con Alex tiravamo giù i testi: tanti testi dei La Crus sono suoi, tanti sono miei ma ancora di più sono quelli scritti a quattro mani. In questo disco c’è invece molto di Alex, perché metà dei brani provengono da suoi provini. In totale c’erano 15-16 inediti, di quelli che sono stati scelti ce ne sono molti che arrivano da lì: “La pioggia”, “La rivoluzione” dove sono stati tenuti dei campioni che aveva trovato e messo nei provini. Poi ce ne sono altri dove Cesare ha composto la parte strumentale e io ho fatto la melodia, mentre invece i testi li ha fatti quasi tutti Alex.
Come mai?
In quel periodo non stavo tanto bene, come posso spiegartelo? Hemingway dice che scrivere vuol dire mettersi davanti alla macchina da scrivere e cominciare a sanguinare. Ecco, mentre il disco nasceva, io facevo fatica a sanguinare. Mi chiedevo, per come anche stava andando la musica, se ne valesse davvero la pena. Le mie energie venivano investite soprattutto nel cercare l’oblio totale: via dai social, da tutto, e il mattino dopo svegliarmi terrorizzato da questi pensieri. È stato un continuo tira e molla mentale dove investivo parecchie energie e quindi non avevo molto tempo per fare altro. Infatti ricordo che, mentre mi veniva piuttosto facile buttare giù le melodie, facevo fatica a sanguinare e quindi i testi non uscivano. Poi magari ce ne sono alcuni che ho sistemato e dove ho messo anche del mio (“Proteggimi da ciò che voglio”, “Mangia dormi lavora ripeti”) però ce ne sono di più che ho semplicemente cantato. Mi sembrava però che queste tematiche, anche se in qualche modo non le vivevo, le riesca lo stesso a comprendere…
In che senso?
Sai, Alex non ha mai abbandonato il suo lavoro, è tuttora responsabile della parte commerciale di una ditta, per cui certe tematiche legate al lavoro lui le conosce meglio di me. Io da quando sono nati i La Crus ho avuto la fortuna di fare solo quello, e quindi di campare con la musica, coi concerti, con le direzioni artistiche e altre cose simili. Però non è che, siccome non mi tirano le bombe sulla casa, io non possa capire il problema palestinese! Mi sembrava importante fare una riflessione sul presente e su questo modello neocapitalista in cui viviamo. Ed è anche la prima volta che affrontiamo queste tematiche sociali, per così dire, ma mi sembrava importante farlo. Abbiamo un po’ scherzato con questo neologismo, “polietico”, però alla fine è così. Un pezzo come “Mangia dormi lavora ripeti” è l’unica canzone “politica” possibile oggi: senza parlare esplicitamente di politica, senza mettersi l’eskimo addosso, bensì cercare di farlo sviando la retorica, cercando di far convivere la poesia.
Ecco, a proposito di questo. Il discorso che hai appena fatto mi pare si possa tranquillamente declinare anche al mondo della musica: anche lì, più che la qualità, l’impressione è che contino i risultati ottenuti in termini numerici. Come la vedi?
Ho la sensazione che siamo inguaiatissimi. Prima, parlo di sette-otto anni fa, quando mi chiedevano la differenza rispetto agli anni Novanta, rispondevo che c’era una linea di confine ben precisa tra il pre e il post Internet. Adesso direi che ce n’è una più importante, che è quella tra il pre e il post Social. L’unico cambiamento possibile, secondo me, sarebbe quello di oscurarli tutti (ride NDA). Finché rimani attorcigliato attorno a questo humus è davvero difficile uscirne. Capisco bene la frustrazione di un musicista che ha iniziato negli anni Novanta, o anche negli Ottanta, a fare musica e dove il suo dovere principale era scrivere canzoni più belle possibili e concerti più belli possibili. Io non ho certo iniziato a fare questo lavoro per fare l’ufficio stampa! Noi abbiamo avuto la fortuna di fare sette dischi con la Warner e c’era il loro ufficio stampa che lavorava per noi, noi dovevamo solo preoccuparci di fare musica e concerti. E attenzione che non è che le major fossero delle Onlus, eh! Non lo sono mai state (ride NDA), però oggi è veramente triste. La sensazione è che tu potresti portare il disco più bello del mondo, ma un discografico la prima cosa che farebbe è guardare quanti numeri hai. Prima, di fronte ad un bel disco, si faceva un piano di tre-quattro anni per portare il suo autore ad avere un po’ di visibilità. Oggi invece si cerca chi ha già un po’ di visibilità per i fatti suoi. Anche sette-otto anni fa, dopotutto, la dinamica era simile: le major preferivano prendere chi era appena stato a X Factor perché era passato in televisione tutti i giorni per un certo periodo, e dunque la promozione era già stata fatta. Pensa che noi, come La Crus, non avevano neanche un profilo su Instagram…
Adesso l’avete fatto?
Quello che è successo è che io avevo un profilo con qualche migliaio di follower, per cui lo abbiamo traslato su quello del gruppo. Anche perché, ci siamo detti, se dobbiamo fare la promozione di un nuovo lavoro ma ci sono zero follower, i soldi a cosa li spendiamo a fare (risate NDA)? È logico che si debba stare al passo coi tempi, non si può vivere al di fuori di queste dinamiche; accetto questa cosa ma almeno fatemi dire che non mi piace. Sto dentro questa contemporaneità ma non è che sia così felice, ecco!
Mi ha incuriosito molto la collaborazione con Vasco Brondi, un artista apparentemente estraneo al vostro background, ma forse neanche più di tanto.
Vasco lo conosco da tanto tempo e mi ha sempre detto che i primi due dischi dei La Crus gli piacevano tantissimo. Essendo lui un figlio putativo di quella generazione lì, mi sembrava interessante coinvolgere qualcuno più giovane di noi che però arrivasse da quel background culturale e musicale. E ci sembrava che “La rivoluzione” fosse il brano giusto. In realtà poi gli abbiamo dato due o tre pezzi tra cui scegliere ma dicendogli comunque che per noi il più adatto era quello. La parte se l’è scritta lui, gli abbiamo dato libertà di fare quello che voleva, mi ha mandato i suoi versi ed è venuto in studio a farli. Poi Alex, che è in contatto con l’editore di Zizek, (Slavoj, il filosofo sloveno che compare nel brano con un breve intervento parlato NDA) gli ha scritto e nel giro di due giorni ci ha dato l’ok e quindi è venuto fuori tutto in maniera molto naturale.
Domanda banale ma obbligata: il tour è già partito. Che cosa succederà esattamente durante queste serate? Chi ci sarà sul palco, oltre a voi?
Succederà che abbiamo una ventina di brani, di cui sette sono del disco nuovo, compresa la versione di “Io confesso” in questo nuovo arrangiamento alla Mark Ronson (ride NDA). Della vecchia formazione è rimasto solo Leziero Rescigno, il batterista. Al basso c’è Marco Carusino, che ha suonato già in tutti i miei dischi e che ha girato con me dal vivo negli ultimi tre anni. Poi c’è Chiara Castelli, la cantante delle I’m Not a Blonde (collabora anche con Cesare) che suona tutti i tasti e che fa anche i cori assieme a Marco. Abbiamo quindi adottato una soluzione differente: le tastiere al posto della tromba.
Molto interessante! Noi ci vedremo senz’altro il 10 maggio in Santeria.
Che è una data speciale, tra l’altro. Suoneremo a Milano e cercheremo di portarci dietro qualche ospite a sorpresa e magari addirittura un certo trombettista che suonava con noi (allude senza dubbio a Paolo Milanesi, che su questo disco ha suonato due brani. E in effetti poterlo rivedere sul palco sarebbe bellissimo NDA).