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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
02/12/2024
Le interviste di Loudd
Due chiacchiere con... Fuyumeku
Fuyumeku in giapponese significa “sentire l'inverno arrivare”, una sensazione malinconica e silenziosa che anticipa un cambiamento, ma è anche il nome un interessante duo dedito al post rock con venature psichedeliche, che qui ci racconta di musica e vita, tra atmosfere sospese e emozioni profonde.

Riccardo Sberviglieri (basso) e Marco Zaccagni (batteria), dopo un percorso musicale protrattasi per diversi anni hanno decisi di dare vita ai Fuyumeku nel 2020. Il duo piemontese-lombardo, prima di accedere alla registrazione del loro primo album omonimo per i tipi di Vina Records, ha quindi  “rodato” il loro interplay, fornendoci un'opera prima particolarmente interessante.

In attesa della pubblicazione del vinile (colorato di blu così richiamando la copertina dell’ellepi) abbiamo scambiato due chiacchere su di loro, la loro musica, il post-rock (per quello che questa definizione vuole ancora dire, senza evitare di essere oramai una mera etichetta) e sulla vita in generale.

 

Ciao Marco e Riccardo, innanzitutto la prima domanda è d’obbligo. Che cosa fate nella vita e cosa vi spinge a fare musica. Poi, di fronte ad un moniker così particolare: cosa vuole dire Fuyumeku in giapponese?

Ciao Stefano, siamo molto contenti per questa intervista e soprattutto che ti sia piaciuto il nostro album. Siamo due ragazzi che lavorano a contatto con il pubblico e che nel tempo libero suonano. La musica è da molto tempo una parte fondamentale della nostra vita, la nostra compagna di viaggio, il nostro rifugio, il nostro modo di esprimerci.

Il nome del nostro progetto, Fuyumeku, è una parola giapponese che evoca un'atmosfera molto particolare, difficile da tradurre in italiano. È un po' come “sentire l'inverno arrivare”, una sensazione malinconica e silenziosa che anticipa un cambiamento. È un'immagine che ci piace molto perché rispecchia la nostra musica, che è fatta di atmosfere sospese e di emozioni profonde.

 

Quale è il vostro background musicale?

Riccardo: Sono cresciuto ascoltando la musica che ascoltava mio padre: Bjork, Pink Floyd, Cure i principali; da lì forse la vena un po’ cupa che mi accompagna. Nel pratico suono il basso da autodidatta, supportato da mio padre, anche lui bassista. I pedalini mi hanno sempre affascinato e con gli anni, vuoi per necessità e un po' perchè mi piace trasformare i suoni, ne sono diventato dipendente, in senso positivo, e ho cominciato a collezionarli. Mi divertono.

Marco: Ho iniziato ad ascoltare e apprezzare diversi generi musicali alle superiori, periodo in cui ho cominciato anche a suonare la batteria. Ho sempre ascoltato di tutto e non ho band di riferimento. Diciamo che associo artisti e brani a periodi della mia vita, cosa che continua tutt’ora. Ad esempio nell’ultimo periodo ascolto con molto interesse gli Earth, in particolare l’album The bees made honey in the lion’s skull.

 

Cosa vi ha spinto verso il post-rock? Mi pare che il vostro sound sia anche influenzato da una vena psichedelica, condividete questo giudizio?

La musica post-rock è stata una grande scoperta per svariati motivi, uno fra tanti la possibilità di sperimentare anche in assenza di voce. Possiamo creare atmosfere e trasmettere emozioni tramite i nostri strumenti. L'influenza psichedelica è evidente: nella ricerca di sonorità evocative e nell'uso di strutture musicali non convenzionali, questo effetto fa si che la musica diventi un viaggio interiore, un'esperienza soggettiva che trasporta ognuno in un mondo a sé.

 

Recentemente ho intervistato un altro progetto che presenta similitudine al vostro (vedasi intervista ai Trame, qui) composto da un duo. Ragionandoci sopra mi ha colpito come questa formula (strumento a corda + batteria) risulti essere molto poliedrica: penso appunto a voi, oppure ai Devils, ai Courettes (vedi intervista qui), agli stessi Trame o ai Bud Spencer Blues Explosion, ovvero tutti gruppi che, pur frequentando diversi generi musicali, propongono questa configurazione abbastanza differente dalle classiche band. C’è una ragione particolare per voi, o è nata e vi siete trovati bene così?

Abbiamo, in passato, suonato con diverse formazioni, voce compresa, ma indubbiamente la configurazione duo basso e batteria è quella che ci diverte di più. In definitiva ci siamo trovati e siamo rimasti in due e successivamente ci è andata bene così. Poi suonare in un duo di musica strumentale, pur essendo una formazione piccola rispetto a una band “tradizionale”, offre una serie di vantaggi. Nel nostro caso la creazione di un legame più profondo e una comunicazione schietta. L'assenza di testi permette di concentrarci esclusivamente sulla qualità del suono e sull'espressività musicale aumentando sicuramente lo spazio per l'improvvisazione e la sperimentazione. E in ultimo, anche se non ci siamo ancora approcciati, la collaborazione con altri musicisti o artisti di diverse discipline, in modo da arricchire il nostro repertorio e creare nuove sinergie.

 

Trovo il vostro disco interessante musicalmente. Non volendo ulteriormente addentrarmi in valutazioni sul post-rock, ritengo che la presentazione dell’album corrisponda effettivamente al melange sonoro da voi presentato. Quali sono le vostre fonti di ispirazione (musicali e non)?

È difficile rispondere in breve, potremmo parlarne per ore, ma sicuramente per quanto riguarda il concetto di duo e di loop sicuramente gli El Ten Eleven e poi ultimi che abbiamo visto live: Battles e Russian Circles.

 

Passiamo ad analizzare qualche brano, e non posso non partire da uno dei pezzi a mio parere migliori dell’album che è “Preferita”: volete parlarmene un attimo?

“Preferita” è stato uno dei primi brani composti utilizzando la loop station, infatti è basato su un unico giro di loop. È un brano che racconta di una giornata routinaria nella quale però per qualche inspiegabile motivo inizi a fare caso a dettagli che prima passavano inosservati, successivamente questa sensazione culmina in un‘epifania, per poi chiudersi con questo pensiero/sensazione che svanisce. È un brano molto bello da suonare e ci regala sempre serenità nell’esecuzione, il titolo deriva proprio da questa leggerezza. Dopo “Intro” solitamente iniziamo i nostri live con “Preferita” perchè è molto orecchiabile e accompagna lo spettatore nella prima parte di questo viaggio.

 

Trovo il successivo "Gabbiani" molto accattivante. Perché questo titolo? E più in generale trovate che la vostra musica possa essere proposta solo strumentalmente, ovvero è possibile in un futuro aggiungere delle parti vocali?

“Gabbiani” è un brano energico che carica il pubblico e anche noi mentre la suoniamo, è una sorta di omaggio e ammicca un po’ al punk rock che ascoltavamo in adolescenza. La scelta del titolo risale ad un riverbero molto acuto con il quale il brano iniziava, che ci ricordava appunto il verso di gabbiani, pur avendolo tolto il titolo è rimasto. Sull‘inserire una componente vocale, mai dire mai. Se dovesse accadere sarà comunque un elemento che dovrà amalgamarsi con il resto, aggiungendo un qualcosa in più di un semplice testo. Magari qualcosa sui gabbiani.

 

Il trittico iniziale si conclude con "From desert", sarà che torno da un viaggio dove ho vissuto il deserto, e quindi ne sono forse inconsciamente influenzato. Quando ci si trova lì si vive come la percezione della precarietà dell’esistenza da un lato, dall’altro lato è inevitabile rimanerne affascinati. Il pezzo nasce da una esperienza simile?

Ci fa piacere averti riportato all’esperienza che hai vissuto con il tuo viaggio. Con “From desert” cominciamo a entrare nei brani più ragionati, dove l’intenzione nel trasmettere cose inizia a essere più forte. Questo brano nasce dalla voglia di raccontare un viaggio onirico, con tutte le sue stranezze e distorsioni. Un viaggio che però non conduce a una vera e propria meta. Nel finale infatti non c’è lieto fine, ma si conclude con quello che nel nostro immaginario potrebbe essere l’inizio di un’altra avventura, tipo la traversata di un mare. Il “Deserto” è sia il luogo fisico dal quale abbiamo preso spunto, ma è metaforicamente l’immagine di un problema e il viaggio una soluzio- ne. “From desert” è un grido a non arrendersi e continuare nonostante le difficoltà.

 

Parliamo della track più lunga dell’album, "Elementi", qui il suono diventa più cupo e straniante, quali sensazioni vi ha dato la composizione e cosa volete trasmettere all’ascoltatore?

Forse è il brano, a livello di idea e lunghezza, che ci ha maggiormente spaventato. Tutto parte dal groove di batteria iniziale. La sfida che ci eravamo posti era quella di provare a farlo durare il più possibile, usando il groove come elemento che scandisce il tempo della narrazione, e contemporaneamente far “ondeggiare sopra” un insieme di riverberi e distorsioni molto incisivi, sui quali jammare. Il risultato è stato da subito una sorta di rituale, anche ora quando lo suoniamo è come se andassimo in trance. Da questo senso dell’ancestrale e del primitivo abbiamo iniziato a immaginare la vita e la potenza degli elementi naturali, che ci circondano. Abbiamo più volte temuto potesse essere noiosa per la lunghezza e troppo oscura rispetto al resto della track list, ma l’atmosfera che crea è veramente magica e lo abbiamo riscontrato anche dalle opinioni positive del pubblico alla fine dei nostri concerti.

 

L’ultima domanda, che per chi mi conosce è oramai abitudine: che strumentazione di studio utilizzate, dal vivo la particolare stratificazione che caratterizza il vostro sound è riproponibile. In ultimo quando uscirà il disco/cd?

Partiamo dal posizionamento sul palco e quando e se possibile giù dal palco. Generalmente apprezziamo essere uno di fronte all’altro, questo ci da una sensazione di maggiore intimità, creando la nostra confort zone e permettendoci di dare il meglio. Quando suoniamo giù dal palco cerchiamo di far stare il pubblico tutto intorno e il più vicino possibile, questo offre a ciascuno una prospettiva diversa, ed è sempre molto interessante.

A livello di strumentazione usiamo un kit abbastanza essenziale di batteria acustica composta da: rullate, un tom, timpano e cassa; hi-hat, due crash e un ride posto tra il tom e il timpano. Per quanto riguarda il basso, senza fare i nerd: due amplificatori, gestiti dalla pedaliera, uno da basso per i loop e uno da chitarra per le parti sovraincise; ovviamente in entrambi entrano una valanga di effetti, distorsori fuzz, flanger, riverberi, delay. Le stratificazioni di suoni del disco sono fatte tutte con il basso e si possono ritrovare uguali nei live perchè non usiamo basi. È sempre tutto fatto in diretta con la loop station e poi ci si suona sopra. Mentre per il disco non abbiamo ancora una data certa ma sicuramente presto.