Sono le sette e mezzo di sera e a Milano sta piovendo piuttosto forte. Fuori dall’Alcatraz non c’è quasi nessuno, probabilmente perché la maggior parte della gente è già entrata oppure (conoscendo i milanesi, è più probabile) perché è ancora troppo presto. Questa sera ci sono di scena i Baustelle, che hanno suonato nel capoluogo lombardo anche il giorno prima, ed è l’ultima data della leg primaverile del tour di Elvis, che proseguirà quest’estate all’aperto in località più turistiche.
Io però, almeno per il momento, non entrerò nel locale. Ho appuntamento con Emma Tricca in un bar lì di fronte perché l’artista romana, in maniera del tutto sorprendente, è stata annunciata in apertura di questa data (il giorno prima l’onore era toccato all’ex Green Like July Andrea Poggio) e ho colto l’occasione per scambiarci quattro chiacchiere.
Aspirin Sun, il quarto disco della sua carriera, trascende ogni definizione di bellezza, unendo un songwriting come al solito di primissimo livello, al lavoro fatto dai musicisti stellari che vi hanno suonato sopra: Jason Victor (Dream Syndicate), Steve Shelley (Sonic Youth), Sean Read e Pete Galub, con l’aggiunta del prezioso contributo di John Agnello al banco mixer. Una squadra simile a quella che aveva realizzato il precedente St. Peter, ma che qui si è decisamente superata, portando ai massimi livelli la tensione emozionale, visibile soprattutto nel livello altissimo delle parti strumentali, soprattutto in canzoni come “Leaves”, “Space and Time” e “Rubens’ House”. Il Folk che incontra la psichedelia, riempiendo il tutto di suggestioni cinematografiche: una proposta che in Italia ancora mancava e che, come spesso accade, suscita un interesse maggiore fuori dai nostri confini. Del resto Emma gioca da tempo in un altro campionato, va in tour con grandi nomi internazionali e, per questo disco, è stata messa sotto contratto da Bella Union, l’etichetta di Simon Raymonde dei Cocteau Twins.
Ci sarebbe da capire come mai da noi non sembrano essersene accorti in molti, ma forse è meglio lasciare da parte le polemiche e riportarvi il contenuto di questa breve ma piacevole chiacchierata.
Purtroppo non sono riuscito a venire a vederti a Bologna qualche settimana fa, com’è andata?
Siamo stati benissimo, ci siamo divertiti molto… non so che altro dire (ride NDA)!
La band era quella del disco, giusto?
Sì, la band era quella. È stato un concerto molto tirato, poi questi palchi così grossi hanno il loro perché, per quanto riguarda quello che facciamo insieme.
Stasera invece sarai da sola e la situazione è un po’ inusuale, immagino che col pubblico dei Baustelle non sarà propriamente semplice.
Diamo un po’ di credito al loro pubblico: dal punto di vista della fruizione musicale un po’ di cose stanno cambiando per cui potrebbe anche essere che stasera esco fuori e faccio il botto! Sarà la prova del nove, non ho mai suonato davanti al loro però mi sento tranquilla, sono in controllo di quello che faccio, che poi è l’unica cosa che posso controllare, no? Vedremo come andrà!
Tra l’altro è interessante perché incroci questo gruppo in un momento storico in cui si stanno avvicinando ad un certo tipo di sonorità: prima col disco solista di Francesco Bianconi, adesso con questo nuovo album che si richiama esplicitamente alle radici di un certo Rock.
Non saprei, sinceramente. So solo che una settimana fa mi ha scritto Francesco, che non conoscevo personalmente, dicendomi che aveva apprezzato molto il disco e poi ha aggiunto: “Magari sei in giro per il mondo e non te ne frega niente, però ci piacerebbe tantissimo che tu aprissi questa serata…”. Siccome è un periodo in cui mi divido tra diverse cose ma sono libera dal punto di vista dei live, perché il mio tour è finito, ecco, non so se sia più una follia di Francesco o una follia mia, però ho detto di sì (ride NDA)!
È anche bello che gli artisti si chiamino tra loro, senza la mediazione dei management e delle case discografiche.
Sì, è molto bello ed è un altro esempio di quel che ti dicevo prima, che secondo me i tempi stanno cambiando. Io stessa comunque ho sempre lavorato in un ambiente dove gli artisti sono sempre in contatto tra loro, è sicuramente meglio. Del resto, quando hai una produzione grossa come questa, se hai voglia di avere un’apertura piuttosto che un’altra, la possibilità di dire la tua ce l’hai eccome.
Sul tuo disco, sinceramente, non so davvero che cosa dire: è veramente una roba incredibile. Ti posso già da dire sin da ora, con ragionevole certezza, che finirà molto in alto nella mia classifica di fine anno, per quanto possa contare il mio parere.
Ti ringrazio molto. E guarda, tutto conta e ti dirò che secondo me le realtà come la vostra contano ancora di più perché la passione che ci mette voi nel fare questo e le persone nel leggervi, alla fin fine è quello che permette a tutto il sistema di andare avanti, è un bello zoccolo duro.
Nel nostro piccolo ci proviamo, grazie! Aspirin Sun l’ho trovato un passo avanti notevolissimo all’interno di una proposta già di livello molto alto. Mi ha colpito molto quello che hai raccontato in una tua precedente intervista, che hai deciso all’ultimo momento di andare a registrarlo a New York, nel 2020. Per cui quando il mondo si è fermato avevi già completato gran parte del lavoro. E la riflessione che facevi sul fatto che, se le cose fossero andate diversamente, quel disco sarebbe stato molto diverso.
Sì, sarebbe venuta fuori proprio un’altra cosa…
Probabilmente sarebbe stato uno di quegli album da lockdown, scarni e minimali, di cui abbiamo avuto fin troppa abbondanza in questi ultimi anni. Segno che a volte le scelte che uno compie senza pensare troppo...
Sì, senza nulla togliere a chi lo ha dovuto fare per esigenze lavorative e artistiche. Credo che tutti abbiano fatto quello che era possibile.
Vi eravate accorti che stavate realizzando una roba così potente, oppure vi è venuto fuori così?
Assolutamente no. Abbiamo fatto quello che facciamo di solito, le cose ci sono venute fuori in modo spontaneo. Come ti dicevo prima, nessuno può controllare niente, non siamo partiti pensando: “Ok, le canzoni hanno una matrice diversa, andiamo in un’altra direzione”. Ho portato queste canzoni in studio e si sono sviluppate così come le senti ora. Certamente il fatto che potessimo lavorare separatamente ha avuto come conseguenza che potessi lavorare di più sulla produzione delle voci e anche sui fiati. Praticamente io e Sean ci siamo seduti, io gli cantavo le parti e lui le suonava. Se non ci fosse stato il lockdown sarebbe stato un disco diverso però fino ad un certo punto, perché alla fine le canzoni erano sempre quelle. Queste canzoni le ho anche suonate dal vivo in in solo, come farò anche questa sera, e quando una canzone regge regge. Non sto incensandomi, eh! Però, pensa a quante persone amino le versioni acustiche di certe canzoni rock…
In questo disco hai delle canzoni migliori, secondo me, ma anche il lavoro della band è stato spettacolare. Anche il fatto che ci siano canzoni così lunghe, non che sul precedente non ce ne fossero, ma qui l’impressione è che abbiate fatto un altro tipo di lavoro.
Ci siamo andati dentro, sì. È un disco che abbiamo registrato live, si sente. Poi però abbiamo avuto due anni per lavorarci sopra, più un anno per farlo uscire, perché con la fila che c’era per stampare i vinili è stato parecchio complicato. Le canzoni sono diverse da quelle precedenti probabilmente anche perché su St. Peter c’erano prevalentemente ballate Folk, queste invece hanno anche delle influenze diverse…
Si può parlare di psichedelia, nonostante sia un termine oggigiorno un po’ abusato?
Ma sì, scherzi? Io vengo anche da quell’ambiente lì, mi piace molto! E poi anche un po’ di Prog, ci sono anche dei richiami a Morricone o ai Goblin, sono cose che ho messo dentro apposta, per esempio le trombe e le campanelle su “Space and Time” le ho messe come omaggio a Morricone. Ci sono degli elementi forti che richiamano le mie radici romane, anche se ho vissuto più in Inghilterra che in Italia.
La tua voce esce sempre molto spontanea, limpida, mi piace sia il timbro che l’esecuzione. Ci lavori sopra, per ottenere questo tipo di effetto?
Dovrei ma non lo faccio mai (ride NDA)! Canto così, come mi viene.
Cosa mi dici invece del titolo?
È una roba molto psichedelica, non ha bisogno di avere un significato ben definito, è più una sensazione di fondo. Hai presente quando passi per la Bassa Padana e c’è la nebbia attorno al sole che crea questa immagine molto ovattata? Ecco, una cosa così.
Che poi però è un disco anche molto colorato.
Sì, però è come essere dentro un tunnel, è tutto ovattato, sono immagini indistinte. È un disco di rinascita, certo, però una rinascita in questo tipo di contesto.
Una curiosità: chi è il Blixa di cui parli in “King Blixa”?
Era il gatto di una mia amica.
Ma dai? Io credevo ti riferissi a Blixa Bargeld…
Può anche darsi che la mia amica lo abbia chiamato così perché pensava a lui, ma io la canzone l’ho scritta per il gatto.
Tra l’altro ho notato che molte delle tue canzoni hanno nel loro titolo nomi espliciti di persone o di luoghi…
Sì, in tutti i miei dischi è così, è una cosa voluta perché molte di esse nascono legate a persone ed esperienze precise. Ad esempio sul nuovo disco c’è “Ruben’s House”, che nasce dall’aver visitato la casa di Rubens ad Anversa, quindi questa sensazione di opulenza che ho avuto, una sensazione che mi aveva quasi soffocato perché gli ambienti erano molto piccoli, quindi da questo contrasto è nata la canzone.
Tu vivi da tempo all’estero e lavori molto di più con artisti stranieri che italiani. Che idea ti sei fatta, sulla reale differenza tra noi ed altri paesi, in fatto di musica? Io, stando qui, ho l’impressione che siamo davvero molto indietro. è davvero così?
Non saprei che dirti perché sarebbe dare un giudizio che non voglio dare, soprattutto perché non ho un giudizio preciso. È sicuramente una roba molto diversa, rispetto all’Italia. A volte, tornando, sento un po’ di freddezza nei miei confronti, però non ho mai capito se è perché il pubblico italiano non sa che farsene di me, oppure se è per timidezza. Devo però ammettere che ultimamente sta succedendo sempre di meno, probabilmente ci si sta un po’ abituando all’idea che ci sono artisti italiani che sono più conosciuti altrove. Poi sai, non ho scelto io di fare quello che faccio, è un’esigenza che ho, non posso certo confessare di avere fatto una scelta mirata nell’andare a Londra, o nell’aver fortemente voluto incontrare certe persone, sono cose che mi sono capitate, è il destino che ha voluto così.
La musica è ancora così importante, nella società odierna?
Per me e per quelli che mi stanno intorno assolutamente sì, però è anche vero che noi viviamo come dentro a una bolla. Diciamo che spero che sia così anche per gli altri…
Peraltro con Aspirin Sun sei uscita dal trend del disco da 25-30 minuti che va così tanto di moda oggi, soprattutto in Italia. Una tendenza che io leggo come un assecondare passivamente lo streaming.
Però negli anni '60 - '70 i dischi duravano tutti così.
Certo, ma c’erano i limiti oggettivi imposti dalla durata del vinile…
Infatti io tutti i dischi li faccio in vinile, con questo hanno dovuto fare un doppio, in effetti.
Dimenticavo: ti faccio i miei complimenti per essere entrata a far parte del roster di Bella Union.
Ti ringrazio. È una cosa bella, una bella favola. Non ci sono arrivata io, mi hanno contattato loro e sono bravissimi, mi supportano tutti molto.
Purtroppo l’esibizione non è stata un successo: volumi bassissimi, esecuzioni quasi del tutto coperte dal chiacchiericcio incessante dei soliti cretini. Bisogna ammettere che si è trattata di una minoranza: la maggior parte del pubblico ha seguito con attenzione e ha risposto anche piuttosto calorosamente. Purtroppo un set per sola chitarra e voce a quel livello di decibel è assolutamente impraticabile in un locale del genere. Ciò che sono riuscito a distinguere è stato senza dubbio ottimo, si capisce che Emma ha una grande padronanza del palco ed una tecnica esecutiva sopraffina; è stato proprio il contesto a non funzionare. Rimaniamo quindi in attesa di un’altra data, possibilmente da headliner, possibilmente in compagnia di tutta la band.