Fa impressione che un gruppo come gli shame, che hanno girato il mondo per un anno e mezzo, passando dai piccoli club ai grandi palchi dei festival più importanti del pianeta, adesso debbano spillare birre al pub per cercare di sbarcare il lunario. Sono tempi tristi, per cui anche agli autori di uno dei dischi più attesi del 2021 capita di tirare avanti come una band di ragazzini qualunque.
Che poi in realtà lo sarebbero davvero, dei ragazzini. I giorni delle prove al piano superiore del Queen’s Head Pub di Brixton, dove hanno di fatto composto tutte le canzoni di “Songs of Praise” non sono così lontani, ma in mezzo c’è stata la grande fiumana del successo. Un hype talmente grande, quello che i cinque di South London hanno generato, che ad un certo punto hanno dovuto fermarsi per ricaricare le pile. “Continuavano a dirci che eravamo incredibili dal vivo – hanno detto ripercorrendo quei mesi di frenesia – ci proponevano date su date e noi non potevamo far altro che accettare”.
Fino a che, ovviamente, non hanno raggiunto il limite. A quel punto hanno rinunciato ad un ultimo giro di concerti in Germania e se ne sono andati in vacanza, chi a Cuba e chi a Berlino, con l’idea di ritrovarsi più avanti, per realizzare quel disco che in tanti cominciavano ad attendere spasmodicamente.
Tante cose sono cambiate, nel frattempo: il Queen’s Head Pub ha chiuso, trasformandosi in un ristorante vegano (più segno dei tempi di così) e loro hanno dovuto trovarsi un altro posto per lavorare ai pezzi. Inoltre, il 2019 e il 2020 sono stati gli anni in cui il loro suono di riferimento è definitivamente esploso, con la nascita dei Fontaines D.C, dei Murder Capital e soprattutto con la consacrazione di Idles e Sleaford Mods, divenuti autentici alfieri di quello che già la stampa si affrettava a battezzare come una nuova età dell’oro della musica britannica.
Nel frattempo gli shame riempivano i locali e incendiavano i festival ma mentre l’onda cresceva attorno a loro era come se sentissero l’obbligo di dover tenere il passo con gli illustri colleghi. Si sa come vanno queste cose, dopotutto: quando prende piede una tendenza sonora, tutti ci si buttano a pesce, dalle band alle case discografiche, per cui accanto a due o tre act davvero meritevoli, nascono una miriade di imitatori, alcuni buoni altri meno, e saturare il mercato e le orecchie degli ascoltatori diviene una conseguenza inevitabile.
Con loro non dovremmo correre rischi. “Drunk Tank Pink” segna un deciso passo avanti, riflette una maturità ed una consapevolezza che non erano presenti nell’esordio e segna la volontà di allargare le possibilità del proprio songwriting, esplorando nuovi territori, pur senza discostarsi un briciolo dall’area di riferimento. Verrebbe da pensare all’operazione compiuta dai Fontaines D.C., che con “Hero’s Death” hanno fatto un disco più elaborato e sfaccettato, senza tuttavia smentire il loro marchio di fabbrica.
Charlie Steen e compagni l’hanno declinata un po’ diversamente: è un disco ancora molto aggressivo, perché brani come “Great Dog”, “Water in the Well”, “March Day” (serratissima, quest’ultima) e “Harsh Degrees” (un bell’assalto frontale con chitarre dissonanti) sono delle autentiche mazzate, nonostante non ci sia né la dimensione monolitica degli ultimi Idles né la follia selvaggia dei Fat White Family. In generale però è un disco cupo, che suona in un certo senso più chiuso e disilluso, laddove “Songs of Praise”, nella sua aggressività lineare, appariva decisamente più solare, in un certo senso riflettendo quei ragazzini che erano nei giorni in cui lo scrivevano.
Nonostante il titolo (una tonalità particolare di rosa, che pare riduca l’aggressività delle persone, tanto che viene talora utilizzato per dipingere le pareti delle celle) rifletta il desiderio di Steen di uscire dal loop di caos e frenesia che aveva preso la sua vita, al punto da decidere davvero di dipingere la propria stanza di quel colore, il mood generale di queste undici canzoni sembra più avere a che fare con la solitudine e il disagio, piuttosto che con una ritrovata armonia.
“I watch my bones dry and shatter/for what purpose do they serve?/I don’t feel that I can keep them/I don’t feel that I deserve/To feel human for an hour/Or even for a minute/While I’m crying with the saints”/And I’m laughing the sinners” cantano in “Human, For a Minute”, che col suo andamento ipnotico, il basso in evidenza e le spruzzate di Synth, è uno degli episodi più belli del disco, oltre che uno dei meno usuali.
Sensazione simile per “Snow Day”, che era già uscita come singolo, molto scura, quella che paga maggiormente il pegno ai Joy Division (imprescindibili per tutti questa generazione di band, anche se alcuni li citano più esplicitamente, altri meno): “I dismiss everything I see in front of me/All mountains crumble and turn to dust/Colour slips away/Just like it always does/If I can’t see you then why should I see?/They say don’t live in the past/And I don’t/I live deep within myself/Just like everyone else”.
È un disco variegato, dicevamo: dalle fredde geometrie di “Alphabet”, che con le sue linee vocali battagliere è un ideale ponte con il passato del gruppo, passando per l’ultimo singolo “Nigel Hitter”, che racconta il ritorno alla normalità dopo il tour, utilizzando soprattutto la lingua dei Fall, col suo giocare sui vuoti, su fraseggi disturbanti e sul tipico cantato sbilenco in stile Mark E. Smith; si arriva poi a “Born in Luton”, uno degli episodi più articolati, che parte come un inno Hooligan e continua con un break centrale rallentato, dove compare prima una chitarra pulita, poi una distorta e dove la sensazione generale è sempre quella di un’angoscia incombente. E poi “6/1”, che mette insieme echi di Happy Mondays con le glaciali rasoiate chitarristiche del miglior Post Punk.
I sei minuti di “Station Wagon” rappresentano infine l’ideale commiato: anche questa lenta, con una linea vocale molto strascicata e un arrangiamento che va in crescendo, riempiendosi a poco a poco ed esplodendo in uno sfogo rumoroso di chitarre.
Può darsi che tra non molto questa formula ibrida di Punk, Post Punk e Combat Rock, così efficace nel riportare le chitarre al centro del discorso di scrittura, finirà per risultare scontata e la abbandoneremo al proprio destino. E probabilmente ci sembreranno ridicoli i proclami della stampa, all’insegna di un nuovo Brit Pop e di fantomatiche upgrade della rivalità Blur-Oasis: nel frattempo gli shame ci mettono del loro, divertendosi a distribuire insulti ai loro colleghi, scherzosi quelli a Fat White Family e Sleaford Mods (il nuovo disco di questi ultimi è uscito lo stesso giorno di “Drunk Tank Pink”, coincidenza che non ha mancato di innescare un ulteriore giro di improperi tra le due band) molto più seri quelli rivolti a Cattlefish & The Bottlemen (qui è difficile dar loro torto) e agli Sports Team (“un gruppo di merda senza nessuna credibilità”).
Godiamoci queste uscite, intanto, perché questo sophomore degli shame è assolutamente degno di stare a fianco dei grandi lavori degli ultimi due anni.
Avrebbero dovuto iniziare il tour alla Brixton Academy (andata sold out in poche ore) e si ritrovano a lavorare nei pub. Tempi cupi, quelli che stiamo attraversando. La speranza è naturalmente di poterli rivedere presto dalle nostre parti (la data italiana era prevista ma è finita nel cestino come tutte le altre) perché ascoltare queste canzoni senza la possibilità di immaginarsele live è davvero una tortura difficile da sopportare.