I Muse sono stati una scommessa bellissima, finché è durata. Quando uscì “Showbiz”, ormai vent’anni fa, fummo in molti a gridare al miracolo e a sperare che fosse arrivata finalmente un’altra band che potesse imprimere una bella sterzata alla storia del rock. I Radiohead avrebbero di lì a poco pubblicato “Kid A” ma in qualche modo speravamo che quel trio inglese che scriveva canzoni così belle ed eleganti, potesse presto essere accostato a loro, per inventiva è genialità.
Non ci ha messo poi molto a morire, questa fantasticheria. Datemi pure dell’amante deluso ma credo che ci sia qualcosa nel rock da stadio che porti in sé la naturale corruzione di quella che è l’essenza stessa del rock. Oppure è l’irrompere della fama, con questo irresistibile bisogno di piacere a tutti, di arrivare dovunque.
Non c’è una risposta e sarebbe presuntuoso dire il contrario. Si possono solo elencare i fatti: i Muse da anni sono diventati enormi, lo Showbiz l’hanno da tempo conquistano e anzi, ne dettano i tempi e i modi a loro uso e consumo. Eppure la qualità dei loro lavori si è esponenzialmente abbassata. Certo, non si sono ridotti come i Coldplay (ma quello è un livello di abbrutimento per cui ci vogliono talenti speciali) ma sfido a trovare qualcuno, al di fuori dei fan, che possa davvero reputare validi gli ultimi tre dischi (per qualcuno il declino inizierebbe addirittura da “Black Holes & Revelations” ma io non sono così cattivo, sebbene già lì si potesse avvertire la piega che avrebbero preso gli avvenimenti.
Oggi che il tour di supporto a “Drones” è terminato, la band decide di pubblicarne un resoconto video, approfittando anche del fatto che, complice la crisi di vendita dei dischi, proiettare per un paio di giorni un bel concerto al cinema sembra divenuto un altro efficace modo di fare cassa e di massimizzare i profitti dei live.
Che dire dunque di questo “Drones World Tour”, 90 minuti in compagnia dei Muse che suonano dal vivo, che uscirà a giorni per la regia doppia di Thom Kirk e Jan Willem Schram?
Lo spettacolo si riferisce alla leg indoor nelle arene, è filmato in varie location non specificate (se non nei credits finali ma perdonerete se me li sono persi) ma se fanno fede le parole di Matt Bellamy tra un pezzo e l’altro, la Germania e sicuramente Berlino sono tra le sedi prescelte.
Il tour del 2016 è stato probabilmente il più imponente e costoso nella storia del gruppo, per quanto riguarda l’allestimento scenico: palco a 360 gradi con lunghe passerelle laterali, massiccio utilizzo di luci, laser, ologrammi, visual e addirittura dei droni che lambivano le teste della gente in alcuni momenti topici. Il New York Times l’ha definito un’esperienza visiva senza precedenti e devo dire che io stesso all’epoca ero stato tentato di andare, anche se poi l’insoddisfazione verso il nuovo disco mi aveva fatto desistere.
E allora chiariamo subito una cosa: siamo al cospetto di un prodotto pazzesco. Il montaggio è dinamico, vorticoso, ci porta direttamente al centro dell’azione e riesce a darci un’idea perfetta di cosa sia avvenuto nell’arco delle diverse sere. Vengono utilizzate tantissime telecamere, c’è un’inquadratura diversa ogni mezzo secondo, bellissimi primi piani dei fan, colti di volta in volta in momenti di euforia, esaltazione, gioia, pura felicità. Un aspetto utilissimo a farci capire l’intensità del legame che il pubblico ha con questa band, la profondità di interazione che si è sviluppata sopra e sotto il palco sera dopo sera. In certi momenti il sing along è fragoroso, assordante: certamente il missaggio avrà fatto la sua parte nel far risaltare le mille voci dei presenti; nonostante tutto, l’effetto è da brividi, il pubblico canta tutto, dai brani vecchi a quelli nuovi e il fatto di trovarsi in uno spazio chiuso contribuisce a creare un’atmosfera di vera e propria bolgia.
Anche la prova dei tre è mostruosa. Si può dire tutto dei Muse, ma non si può criticarli per come stanno sul palco. Certo, Matthew Bellamy si prende molta della scena e non potrebbe essere altrimenti, visto che è il frontman e che si sobbarca la quasi totalità delle parti di chitarra. La sua voce non è più così alta e potente come in passato, si capisce che col passare del tempo ha imparato a limitarsi un po’, ma l’effetto complessivo è ancora notevole. La bellezza di questo concerto sta però nel fatto che riesce a valorizzare in pieno gli altri due, di cui forse ogni tanto si tende a sottovalutare l’apporto. Dominic Howard alla batteria è un’autentica macchina, che non fa cose mirabolanti ma è sempre preciso e incalzante. Il basso di Chris Wolstenholme è poi qui particolarmente magnifico, ha un suono pieno che avvolge le strutture ritmiche e risulta particolarmente funzionale ai momenti in cui Matt si limita a cantare; in questi frangenti, gli effetti che usa creano un muro sonoro davvero solido e la mancanza della chitarra non si sente proprio.
Bello anche il modo con cui vengono occupati gli spazi, con la batteria a centro palco e gli altri due a muoversi in lungo e in largo. Gli effetti poi sono notevoli, col montaggio che valorizza gli ologrammi e le immagini proiettate sugli schermi, in modo tale che anche chi è seduto in poltrona può capire a grandi linee come è stato pensato l’allestimento.
Nonostante tutto, mi sento però di dire che le parole di elogio che sono state spese sono apparse alquanto esagerate, almeno per me. Effetto suggestivo, per carità, esperienza visiva notevole, soprattutto in certi momenti ma a sentire come è stato descritto in questi anni da critica e pubblico, ci si poteva aspettare qualcosina di più. Più che altro, il tema dell’interazione tra umanità e tecnologia, incarnato dall’immagine dei droni e al centro del concept dell’ultimo disco, è stato messo in scena in maniera piuttosto approssimativa. Bellamy ha dichiarato, nella brevissima introduzione del film, che si augurava che gli spettatori, assistendo allo show, potessero trarre loro stessi le conclusioni adeguate riguardo a tale tematica. Una speranza mal riposta, a mio parere, perché alla fin fine, più che un percorso (come lo ha definito la band) questo è un concerto normalissimo. Che alterna brani nuovi (neanche così tanti, per fortuna) a cose più vecchie, esattamente come il gruppo ha sempre fatto in passato.
È comunque bello constatare che siano ancora in forma. Sono passati più di dieci anni dall’unica volta che li ho visti dal vivo ma alcuni momenti li ho trovati ancora da pelle d’oca: “Time is Running Out”, “Hysteria”, “Starlight”, “Knights of Cydonia” sono straordinarie per forza evocativa e per il coinvolgimento del pubblico. Per il resto, la parte del leone la fa il disco nuovo, suonato quasi per intero, e bisogna dire che “Dead Inside” nel complesso funziona più che bene. Quasi nulla invece dai due precedenti (e non possiamo che esserne contenti), con “Uprising” che nonostante tutto dice ancora la sua: un singolone senza molta sostanza ma dal vivo ha impatto a sufficienza. un vero peccato che non si vada più indietro di “Absolution” nel ripescaggio dei pezzi. Sciagurata qui la scelta dell’editing, perché a guardare le scalette, si scopre che “Plug in Baby” e “Map of the Problematique” venivano suonate piuttosto frequentemente.
A conti fatti, “Drones World Tour” va visto. Non sono i Muse che ricordo io, l’ispirazione è svanita forse per sempre e la dimensione da stadio che hanno raggiunto ne ha aumentato la magniloquenza della proposta, facendoli diventare a tratti fastidiosi e ridondanti. Se si guarda però alle altre band che fanno gli stessi numeri, ci si accorge che Bellamy e compagni sono ancora ad un livello superiore. Sarà una magra consolazione, ma è sempre meglio di niente.