Che meraviglia entrare con la dovuta calma in cinematografie così distanti dalla nostra e da quelle alle quali siamo più abituati, prendersi tutto il tempo per arrivare al cuore di una storia, attendere con pazienza quaranta minuti per vedere i titoli di testa e innamorarsi per circa tre ore di personaggi fino al momento della visione completamente sconosciuti. È un po', almeno per chi scrive, la sensazione che si prova di fronte ai migliori esiti del cinema asiatico di cui Drive my car di Ryusuke Hamaguchi è senza dubbio una delle opere più recenti e meritorie.
Drive my car è il film che quest'anno ha vinto l'Oscar come miglior film internazionale, "soffiando" la statuetta al nostro Paolo Sorrentino che concorreva con il suo È stata la mano di Dio. Difficile dire quale delle due opere meritasse il premio in misura maggiore (l'avrebbero meritato entrambe) tanto lontani sono gli approcci al cinema e alla vita dei due film, entrambi intrisi di una viscerale sofferenza, sublimata in maniera diversa nei due racconti, uno autobiografico, l'altro ispirato a un racconto dello scrittore giapponese Haruki Murakami. Entrambi i film hanno come motore una dolorosa elaborazione di un lutto, di quello dei genitori del protagonista nel film di Sorrentino, di quello di una moglie e compagna di vita in questo Drive my car. È una delle tante magie del cinema, stessa intensità di sentimenti a latitudini differenti ma con metodologie e sensibilità, anche di racconto, molto diverse.
Yusuke (Hidetoshi Nishijima) e Oto (Reika Kirishima) sono sposati: lui è un regista e interprete teatrale da tempo impegnato nella trasposizione dello Zio Vanja' di Checov, Oto è una sceneggiatrice che scrive storie per la televisione. I due hanno un rapporto pieno e caratterizzato da una bellissima complicità, nella gioia dell'atto sessuale Oto concepisce le sue storie migliori e le racconta a Yusuke il quale la mattina dopo le ricorda alla moglie e la aiuta a trascriverle. Poi inizia la routine lavorativa, in auto Yusuke ripassa le battute delle opere teatrali che interpreta tramite delle cassette registrate proprio da Oto, tra i due c'è uno splendido connubio fatto di arte e amore. Poi, un giorno, Yusuke scopre (o ha la conferma) che questo idillio non è forse così perfetto, Oto lo tradisce con un giovane attore, Koji Takatsuki (Masaki Okada), innamorato delle sceneggiature della donna.
Quando Oto morirà per cause naturali Yusuke si troverà con un vuoto da elaborare, con un amore che ha lasciato un buco incolmabile, un amore che nemmeno il tradimento aveva scalfito in profondità. Tempo dopo, l'attore e regista, ormai incapace di continuare a interpretare la parte dello Zio Vanja, accetta di dirigerne una rappresentazione a Hiroshima, qui un paio di avvenimenti segneranno i suoi giorni futuri: il regista sceglierà per interpretare Zio Vanja proprio Koji Takatsuki protagonista di un bel provino, inoltre la produzione, per motivi assicurativi, gli impedirà di guidare la sua Saab 900 Turbo rossa affidandogli i servigi della giovane autista Misaki Watari (Tôko Miura), una ragazza rispettosa e riservata che arricchirà la vita di Yusuke portando in dote un bagaglio di sofferenze e traumi non indifferente.
Drive my car è una lunga elaborazione del lutto da parte di Yusuke che il regista Ryusuke Hamaguchi riesce a farci avvertire con grande profondità senza bisogno di ricorrere a troppe parole, attraverso una serie di innumerevoli silenzi, di atti quotidiani, di ripetizioni e di imprescindibili contatti con gli altri. I silenzi del protagonista si scontrano con quelli della giovane Misaki, una ragazza di ventitré anni che per sua stessa ammissione è capace solo di guidare, unico lascito di una madre assente anche quando era in vita.
In Drive my car le parole importanti sono contate, escono con garbo e pudicizia e pesano, e donano valore assoluto a quei silenzi che ne prendono il posto, silenzi che non azzerano significati e vicinanze, anzi, rafforzano nel rispetto e nella comprensione tutti i rapporti nascenti impossibilitati a colmare il vuoto di quello da cui tutto muove. Così Yusuke troverà significato nei silenzi dell'attrice muta Lee Yoon-a (Yoo-rim Park), nel suo linguaggio dei segni, nel parlato in altre lingue dei membri del suo cast, in quelli della sua giovane autista e infine, anche in quelli di Oto, in maniera inaspettata sciolti proprio nel rapporto con il giovane Koji il quale sarà per Yusuke portatore di rivelazioni.
Le parole trovano invece posto sulle assi del palcoscenico, nella sala prove di quel melting-pot culturale assemblato dal regista per la sua prossima rappresentazione durante la quale sarà costretto a rimettersi in gioco ben oltre quello che avrebbe pensato. Hamaguchi riesce a riprendere al meglio un racconto non facile da trasporre: silenzi, parole recitate, segni, l'abitacolo di un auto, gli attorni attorno a un tavolo. Nel gestire le riprese il regista giapponese riesce a creare la giusta armonia tra gli elementi rendendo queste tre ore di film una passeggiata davvero molto piacevole, lo fa senza strafare, adottando la stessa misura propria dei suoi ponderati personaggi. Tutto sommato i vari premi vinti da Drive my car possono dirsi più che giustificati.