“Things Can Only Get Better permane una delle mie preferite, si tratta di una canzone motivazionale, e ‘motiva’ anche me. Mi ricorda che quando le cose non vanno per il verso giusto, puoi sempre trasformarle in un che di grandioso e pure migliorare la situazione se hai un atteggiamento fiducioso”.
Howard Jones è un artista che non ha mai rinnegato il passato, però è sempre riuscito con intuito e intelligenza a oltrepassarlo e a non rimanervi legato. Maestro dei sintetizzatori e pioniere della musica “Elettroclassicarock” negli Eighties, ora è un delicato compositore che ha saputo con saggezza reinventarsi, aggiungendo innumerevoli progetti e collaborazioni nel tempo, senza mai fermarsi. I recenti tour nel Regno Unito e negli States, rispettivamente con Midge Ure e Nick Becks & Robin Boult (con questi ultimi due a formare l’Acoustic Trio) e l’intrigante album Dialogue, pubblicato la scorsa estate, testimoniano questa verve e il desiderio di intraprendere costantemente nuove strade. Ma se, tornando indietro nel tempo, vi fosse un germoglio da cui è potuta sbocciare tutta la stupefacente carriera dell’istrione di Southampton, quello è Dream Into Action, secondo lavoro in studio pubblicato nel 1985, quando un ragazzo ormai trentenne era appena divenuto popolare grazie al debutto intitolato Human’s Lib, e ai singoli "What is Love?" e "Like to Get to Know You Well".
Dream into Action contiene appunto la regina delle “canzoni motivazionali”, la celebre "Things Can Only Get Better", che oltre ad essere una potente miscela di synth-pop e new wave, rappresenta l’inno alla positività e all’allegria: anche se ogni cosa andasse terribilmente male, ci si può sempre rialzare e tirare avanti, trovando un rimedio, come si evince chiaramente nel testo, “ E tu hai paura? Io sì. Ma non mi fermerò e non vacillerò, e, seppur avessimo gettato via tutto, le cose possono solo migliorare…”.
Tipicamente in levare, come gran parte della produzione di Jones, il brano in questione è caratterizzato da un groove funk dominato dai sintetizzatori e dai cori delle Afrodiziak, un gruppo tutto al femminile che regala pure un’indovinata spruzzata soul, alimentata dai fiati dei Tko Horns. Ecco quando l’elettronica ha un’anima: la convivenza tra tastiere, vocalizzi e ottoni non è così scontata e qui appare tremendamente originale.
Il disco è frutto di un lavoro certosino avvenuto ai Farmyard studios, in Pentlow, nell’Essex, sul finire del 1984, tra il compositore britannico e il famoso produttore Rupert Hine (Rush, Tina Turner, Bob Geldof e Thompson Twins fra i suoi prediletti). Tutti gli strumenti, salvo il contributo al basso del fratello Martin e alcuni ospiti centellinati fra cui gli artisti sopra citati, sono suonati (o programmati nel caso di drum machines e percussioni elettroniche) proprio da Howard Jones, un personaggio davvero particolare che già a sette anni illumina le sue giornate non staccandosi mai dal pianoforte; avere frequentato a Manchester il Royal Northern College of Music, uno dei principali conservatori al mondo, gli dona poi quella cultura classica che, abbinata al pop rock, consente di raffinare il suo stile, i cui punti di forza risiedono nella tecnica e nella versatilità, caratteristiche imprescindibili per un abile tessitore di irresistibili trame melodiche.
Un chiaro esempio di quanto affermato è la lussureggiante "Life in One Day", orecchiabile fin dal riff iniziale, semplicemente perfetta da cantare e ballare nelle strofe e nell’inciso, ma mai banale, arricchita anche in questo caso dalle “backing vocals” delle Afrodiziak (Claudia Fontaine, Caron Wheeler e Naomi Thompson). La title track si potrebbe invece definire un puro esercizio di suoni e ritmi synth, sembra a un primo ascolto la canzone meno riuscita del lotto, ma in realtà si palesa credibile per quella commistione di angoscia e speranza che emergono nell’interpretazione visionaria di Jones (il quale a partire dai Novanta abbraccerà il Buddismo) sognatore di un mondo migliore, ove i contrasti tra le persone si appianano con rispetto e accettazione delle diversità.
"No One Is To Blame" è un’altra vetta del disco, ballata malinconica che narra di desideri e attrazioni insoddisfatte. La versione presente sull’album è meravigliosa, apre le porte del cuore, bastano la voce, il piano e un semplice ritmo di fondo a catturare perfettamente l’atmosfera nostalgica creata ad hoc dall’artista. Destino vuole che venga successivamente reincisa con il remix dei “Re Mida” delle charts Phil Collins e Hugh Padgham, diventando un successo internazionale, tuttavia perdendo la bellezza semplice, assolutamente genuina, dell’originale.
“Ho partecipato ai Grammy con Stevie Wonder, Herbie Hancock e Thomas Dolby [Synthesizer Jam ai Grammy Awards del 1985]. Mi sono reso conto di quanto sia stato significativo. Si è trattato di un evento ovviamente multirazziale, tanto per cominciare. C'erano due persone leggendarie, Herbie e Stevie, i miei idoli da giovane insieme a Keith Emerson, e poi i nuovi arrivati, Tom ed io. Questo show era un chiaro messaggio per la gente: guardate, la musica elettronica è ok. Questi ragazzi pensano che sia ok. Smettetela di preoccuparvi che non sia "vera musica". È stato un punto di svolta per quello che io e Tom stavamo cercando di fare: portare la musica elettronica nel mainstream”.
Proprio uno degli altri singoli celebri presenti nell’LP, "Look Mama", incarna perfettamente quanto enunciato da Howard Jones: la musica elettronica esiste e non è fredda e monocromatica, vive di più strati e sfaccettature come quella più “nobile” e ha una dannata anima. E a dimostrazione basta ascoltare questo motivo, godersi la sua accattivante linea di basso accanto a ritmi funky, con un testo che scava nei pensieri di ogni adolescente alle prese con un genitore iperprotettivo.
Una delle critiche spesso espresse nelle recensioni del disco riguarda la scelta di aver messo i pezzi forti nella prima parte della tracklist, lasciando dei riempitivi o alcuni esperimenti meno riusciti nella seconda. In realtà l’osservazione è lecita se viene visto il lato commerciale di tale aspetto, poiché in effetti quasi tutte le hit si trovano nella Side A; è altresì vero che canzoni profonde come "Assault and Battery", la quale gioca con il contrasto tra pianoforte e sintetizzatori ed esplora la moralità dell’uccisione degli animali per il cibo, "Automaton", dal suono strano e sincopato come proprio quello di un automa, di un robot dall’aspetto umano ma vuoto dentro, e soprattutto la vivace "Is There a Difference", hanno le carte in regola per accompagnare i grandi successi senza far cadere di tono il livello dell’opera. "Is There a Difference", inoltre, incuriosisce per le tematiche, che si basano sul capitolo 20 del “Tao te Ching” di Lao Tzu ed è una dissertazione filosofica su quanto le nostre differenze apparenti contino davvero nello schema generale delle cose.
Certamente due tracce da riascoltare e rivalutare attentamente per qualità sonora e melodica sono "Elegy" e "Specialty". La prima è uno straziante blues elettronico incupito dal crepuscolare violoncello di Helen Liebman. Eterea e oscura, "Elegy", musicalmente e concettualmente è in netta divergenza rispetto al resto di Dream into Action, con le sue liriche che evocano sofferenza e desiderio di morte, e rappresenta l’altra faccia della medaglia di un album mai scontato. "Specialty" è la classica perla nascosta nel disco, un piccolo capolavoro pop giustamente eseguito spesso dal vivo, con un ritornello inebriante, indimenticabile e un testo didascalico, appassionato elogio dell’unicità e “specialità” di ogni persona.
Riuscire a tenere alta la tensione e l’intensità in dodici tracce oscillanti tra new wave, rock e synth pop non è facile, tuttavia Jones prosegue nell’intento con l’apparente leggerezza di "Why Look for the Key", contraddistinta da un riff di basso e tastiere che avrebbe meritato miglior fortuna, e la conclusiva "Hunger for the Flesh", ove i sintetizzatori rotolano e ruggiscono come un temporale e un’inondazione di proporzioni bibliche, mentre la voce di Jones implora sincera un ravvedimento dell’essere umano, sempre più tendente a nutrire il proprio corpo a scapito del proprio animo, dimenticando l’ineluttabilità della morte.
Non solo spensieratezza, quindi, ma anche ragionamenti profondi e spirituali pervadono l’opera. In generale nel quadro raffigurato regna l’ottimismo, anche se l’autore lascia intendere che molto dipenda dall’atteggiamento di ogni singolo individuo, a volte incapace di cogliere la bellezza universale e per tale motivo distruttore, con il suo egoismo e la sua superbia, dell’equilibrio naturale.
Dream into Action rimane il successo commerciale più ampio raggiunto da Howard Jones, coniugato con un livello qualitativo straordinario che tende a diminuire, insieme all’ispirazione, nei successivi One to One (1986) e Cross That Line (1989), comunque contenenti una manciata di canzoni ancora epocali. L’ottimo Live Acoustic America del 1996 sancisce la validità delle composizioni dell’autore anche in un ambiente unplugged e gli ultimi interessanti progetti citati all’inizio della retrospettiva non fanno che confermare l’autenticità della proposta di un personaggio intramontabile, felice della sua vita artistica e personale e sempre pronto a parlarne con umiltà, semplicità e sincerità.
“Il buddismo mi aiuta a mantenere un buon stato d'animo, ad affrontare le difficoltà con ottica positiva. È la mia passione. E si collega perfettamente ai miei affetti. Ho conosciuto mia moglie Jan quando aveva 11 anni, era la sorella di uno dei miei migliori amici. Poi, a 14 anni, le ho insegnato a suonare il pianoforte e infine, molto più avanti, le nostre strade si sono intrecciate. È come se ci conoscessimo da una vita passata. Onestà e rispetto sono un impegno che si prende con una persona, e sono molto felice di farlo, ci capiamo e ci sosteniamo a vicenda. Ma siamo forti anche da soli, quindi non siamo dipendenti l’uno dall’altro. Capite cosa intendo? Vogliamo stare insieme, ma non abbiamo bisogno di stare insieme, ecco perché funziona!”.