“If you don’t know your past you don’t know your future”.
Ci sono due narrazioni differenti riguardo al nickname “Ziggy”: la prima attribuisce l’idea a papà Bob, dove il soprannome sta a significare “little spliff”, traducibile come “piccolo spinello”. La seconda ipotesi affibbia la scelta dell’appellativo proprio a lui, al secolo David Nesta Marley e innamorato spassionatamente di David Bowie. Probabilmente le versioni possono coesistere, come coesiste in Dragonfly l’ispirazione alla musica del padre e, anche se più nascosta, ma comunque percettibile, a quella del Duca Bianco. E a suffragare quest’ultima influenza non è un caso la presenza, come arrangiatore degli archi, di Tony Visconti, storico collaboratore dell’icona “glam rock” inglese, nella traccia numero dieci, "Never Deny You".
Dragonfly è il primo lavoro solista di Ziggy, viene pubblicato nel 2003, alcuni mesi prima che diventi trentacinquenne. Non ha dimenticato gli insegnamenti del passato, quando, fin da piccolo riceve le lezioni di chitarra e batteria dal padre -e infatti suonerà proprio pure questi strumenti in diverse canzoni dell’LP- ed è ancora ispirato dai Melody Makers, gruppo che forma nel ’79 insieme alla sorella Cedella, al fratello Stephen e alla sorellastra Sharon. In particolare si respira l’influenza a livello compositivo del terzo album, Conscious Party (1988), che rimane il loro capolavoro e si aggiudica pure un Grammy Award come miglior disco reggae, trascinato dai singoli "Tumblin’Down" e soprattutto "Tomorrow People", un piacevolissimo instant hit pregno di significati, con una velata critica agli Stati Uniti, popolazione nata dalle ceneri dei nativi americani e quindi con una storia relativamente giovane, proiettata unicamente al futuro senza avere solide radici. Anche il conclusivo Spirit of Music (1999), con il cantato così carico di sentimento e le melodie di buon livello, sembra proprio passare il testimone a Dragonfly, e d’altronde la cosa è plausibile, dato che la parte compositiva è praticamente sempre stata tutta nelle mani di Ziggy.
Ciò che rende questo lavoro eccellente è la nuova maturità dell’autore, che non si stanca mai di porsi delle domande, coltiva la curiosità, la sete di ricerca, sia dal punto di vista intellettuale che musicale. L’elettroacustica iniziale title track ne è un classico esempio; nonostante l’aura sia soffusa e sognante, prende piede un turbinio di percussioni contornato da un wah wah intrigante e incalzante, mentre l’acustica di Dan Warner ricama arpeggi sinuosi che accompagnano il motivo, e la voce in primo piano dell’artista giamaicano si nutre di un coro in tonalità più grave sullo sfondo. Nel testo affiora la consapevolezza e la profonda amarezza riguardo a quanto l’uomo stia distruggendo l’ambiente naturale, “Hey cara ape/ signorine libellula e farfalla/ signor albero/ il mondo cambia, ma voi rimanete uguali e spero sopravvivrete quando tutto andrà in malora.”
Un’altra freccia nell’arco di Marley risulta sicuramente l’avere a disposizione una manciata di special guests considerevoli, scelti ad hoc per impreziosire ogni brano e perfettamente aderenti al progetto, co-prodotto per la maggior parte delle incisioni insieme a un mago del suono, Ross Hogarth - dei cui servigi si è avvalso un infinito ed eterogeneo stuolo di musicisti, da Al Stewart e John Mellencamp a Keb Mo’ e i Van Halen - e per i restanti pezzi con un altro veterano, il rinomato Scott Litt, al lavoro, fra gli altri, anche con i R.E.M.. Uno dei vertici dell’opera, "True To Myself", un reggae tosto con un’accattivante sezione fiati di cui il mai troppo compianto papà Bob sarebbe fiero, annovera il gigante della chitarra David Lindley, il re delle percussioni Luis Conte e lo storico organista cofondatore dei Wallflowers Rami Jaffee ed è dal punto di vista lirico un’altra perla di saggezza: si può essere liberi veramente solo essendo sinceri ed onesti con se stessi, senza scendere a compromessi con la propria persona per farsi accettare dagli altri. Gli stessi concetti proseguono con nuove sfaccettature nelle derive rock di "I Get Out", un pezzo duro, irrobustito dalle chitarre di Lindley e dell’istrionico Blues Saraceno, e nella ballata "Looking", dove l’atmosfera si rasserena, fisarmonica e sassofono si rincorrono come due rondini in un orizzonte solcato da un arcobaleno e Ziggy si confessa, “Nella fama od oscurità, stiamo tutti giocando in questa partita cercando qualcosa. Guardando, osservando, cercando, scoprirai che starai bene.”
Tutta l’opera è pervasa da un sound pulito, cristallino, che evoca la trasparenza dei pensieri nella mente di Ziggy Marley, un cielo pulito senza nubi quando si schiera contro la discriminazione, la guerra e pure le religioni, allorché queste ultime arrivano alle armi per far valere le proprie ideologie. “Children are children, no matter color or faith” canta commosso in "Shalom Salaam", uno dei brani in assoluto maggiormente vicini al repertorio di Bob, e nella successiva "In The Name Of God" rincara la dose, “In the name of god you kill, in the name of your god”, a specificare l’errore di trasformare la fede in fanatismo e integralismo.
"Rainbow In The Sky" spazza via per un poco la tristezza illuminandoci di speranza per un mondo migliore e nell’occasione vi è un cast di superospiti da urlo. Una sezione fiati spumeggiante dirige le danze, aperte dai cori di Erica Stewart e di “sister” Sharon Marley e via via si “presentano” le altre star: l’epico tastierista ex Wailers Tyrone Downie si impossessa del groove seguito a ruota da Flea. L’altro “Red Hot” John Frusciante abbaia qualche timido arpeggio a contorno della melodia; Steve Jordan, invece, pesta duro dietro alle pelli.
Il mood del disco cambia ancora, subito dopo; si respira malinconia, come si evince anche dal titolo, in "Melancholy Mood", gioiellino nascosto che esala note blues intinte nell’arrangiamento jazz degli ottoni, dove si ritaglia uno spazio speciale il flicorno crepuscolare di Ron Blake e serpeggia nuovamente il basso di Flea. Permane, però, la fiducia nel riscatto e "Good Old Days" prosegue questa istanza, impreziosita dalla partecipazione dell’altra sorella, Cedella.
Le due tracce finali dell’album consentono al buon Ziggy di dare l’ultima lezione di vita, parlando di amore e conoscenza universali. Non bisogna essere invidiosi dell’avere, ma del sapere, questo è quello che ci raccomanda. "Never Deny You", dolcemente guidata proprio da lui al piano, pare uscita dal songbook del Lenny Kravitz maggiormente ispirato e arde di contrasti musicali e morali. Da una parte il tonitruante Steve Ferrone, uno dei più potenti batteristi su questa Terra, ammansito dalla delicatezza degli archi di "The Scorchio Quartet", dall’altra la tentazione al tradimento contro la risolutezza della fedeltà. Le discordanze proseguono con i figli Justice e Zuri, insieme al fratello più giovane Daniel, rappresentanti il futuro, che si uniscono nei cori di "DYKL (Don’t You Kill Love)", placido reggae-pop dominato dall’uso del synth, a simbolizzare un ritorno al passato, a quegli anni ottanta che hanno forgiato il carattere di Ziggy. In questo caso però passato e futuro devono andare entrambi nella stessa direzione per spostare il baricentro sulla ricerca della sapienza, dimenticando l’avidità del possesso e spostandosi su un piano più spirituale. Nonostante tutte le storture e incongruenze che pervadono il Creato, i giochi sono ancora aperti. La speranza, come una piuma, si posa dolcemente sul nostro cuore e lo fa volare alto tra le nuvole così che possiamo guardare l’azzurro del cielo e sognare ancora.
Dragonfly è un disco profondo, probabilmente l’apice della carriera di Ziggy Marley ragionando dal punto vista artistico, però il “ragazzo” giamaicano non si è mai fermato, ha continuato a coltivare esperienze e pubblicare album, su tutti Love Is My Religion (2006) e Fly Rasta (2014). Un’intensa attività live, alcune comparsate televisive e cinematografiche, l’hanno sempre tenuto vivo e partecipe fino al commovente More Family Time (2020), concepito durante la pandemia e corroborato dal contributo generoso di parecchi ospiti, fra i quali Sheryl Crow, Tom Morello e Alanis Morissette. Questo maledetto periodo ha stravolto ogni esistenza, ma l’autore giamaicano non si è mai perso d’animo, convinto fin dall’epoca proprio di Dragonfly di quanto fosse assurdo aumentare a dismisura la velocità dei ritmi di vita. Ora è tempo di riflettere e agire per ritornare ai bei tempi andati.
“I don't have to wait to realize the good old days”.