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REVIEWSLE RECENSIONI
31/03/2022
Visconti
DPCM
Tante idee, tanta ispirazione, un’esperienza forte da comunicare. Un esordio di quelli forti, da non lasciarsi scappare.

Erano i primi giorni di lockdown e già si scherzava su quanti improbabili artisti della ancora più improbabile galassia “Indie” avrebbero scritto, quasi in presa diretta, canzoni che riflettessero e descrivessero quel periodo, sempre ovviamente con la leggerezza e l’ostentata noncuranza che costituivano ormai da tempo il marchio di fabbrica di questa nuova tendenza.

Non è successo o, se non altro, è successo meno di quanto si temeva. Terminata la fase, spesso e volentieri dimenticabile, delle dirette dal salotto o dalla cucina, abbiamo avuto soprattutto dischi intimi, spesso realizzati in solitaria approfittando delle circostanze e possiamo dire che in generale il mondo della musica, seppur penalizzato ben oltre il lecito dall’assenza di concerti, ha gestito il discorso discografico in modo tutto sommato intelligente.

Mancava però uno come Visconti, che decidesse di utilizzare il proprio esordio per gridare in faccia a chiunque volesse ascoltarlo che cosa abbia davvero rappresentato la pandemia per quelli della sua generazione.

DPCM (titolo che è già tutto un programma) è il parto di un allora ventenne di Acqui Terme che ha visto la sua vita subire improvvisamente una battuta d’arresto e che si è successivamente accorto di appartenere ad una categoria che da questa anomalia di circostanze è stata in assoluto tra le più penalizzate. Lo si è scritto tante volte, che il Covid ha messo in luce, e se possibile amplificato, una serie di problemi strutturali che la cosiddetta “Generazione Z” già da tempo si portava dietro. In questa sorta di guerra civile non convenzionale che la società italiana sta attraversando da due anni a questa parte, dire che i giovani hanno pagato il prezzo più alto non è un’esagerazione. Visconti ha fatto un disco che queste cose le dice ma le dice, pur con una rabbia impossibile da celare, con una certa dose di intelligenza e pure di ricercatezza, attraverso una manciata di canzoni che recuperano stilemi che dalle nostre parti non è così usuale recuperare.

Lo ha registrato e prodotto Giulio Ragno Favero de Il Teatro degli orrori e già un nome del genere è una ragione sufficiente per prendere questo lavoro in considerazione. Al di là di questo, il contenuto non mente. Valerio scrive e suona tutto lui (unica eccezione, il violoncello di Enrico Milani nella conclusiva “Nulla mi urterebbe di più”), mette insieme tante influenze diverse, dal cantautorato italiano all’Alternative anglosassone di inizio millennio e le mette al servizio di una proposta che è sì eterogenea ma allo stesso tempo sorprendentemente coesa.

Le note stampa parlano di “Post Punk” ma se proprio dobbiamo tener fede a tale affermazione, è per dire che con un certo It Pop o con quell’ibrido di Rap, Urban e qualcos’altro che gira così tanto negli ultimissimi anni, lui non ha proprio nulla a che vedere. DPCM gode di una produzione volutamente ruvida e dimessa e prosegue, seppur in versione aggiornata, quello che Nicolò Contessa aveva iniziato coi suoi Cani una decina di anni fa. È un classe 2000 che suona “musica datata” (tanto per citare quel “sorprendente album d’esordio”) e la rilegge dunque con la propria sensibilità, riempiendola di contenuti che hanno a che fare col proprio personale vissuto ma, nei fatti, rifiutandosi di adeguarsi, nell’attitudine e nel linguaggio sonoro, a ciò che va di moda. Non è il primo ad intraprendere questa strada: penso ad Ibisco, che ho intervistato un paio di mesi fa, oppure a Battista, del cui singolo d’esordio mi sono occupato sempre su queste pagine, ma prima ancora era uscito Giuse The Lizia, che oltretutto incide per una label importante come Maciste. Nuova tendenza in arrivo (o meglio, nuovo modo per esprimere questa onnipresente retromania)? È un po’ presto per dirlo ma non è da escludere.

Ascoltate “Morte a Venezia”: basso, chitarra, batteria a creare un up tempo tanto lineare quanto telefonato eppure, al tempo stesso, irresistibile. C’è un testo che è un elenco di riferimenti colti, personaggi ed avvenimenti storici accostati in maniera surreale, mescolanza di immagini e suggestioni improbabili che vanno a comporre un sogno allucinato non così dissimile da quelli con cui a metà anni ’60 Bob Dylan infarciva i suoi dischi più celebri. In coda, un Synth che, guarda caso, ricorda molto da vicino quello di “Velleità”, sempre da quel disco famoso di cui dicevamo.

“Narcisi sbagliati” parte come una ballata scarna, che comunica un disagio palpabile. L’inizio chitarra e voce appare però ingannevole perché poi il brano si riempie e una chitarra tipicamente Jangle Pop porta tutto su terreni ad alto tasso melodico.

Altro cambio di atmosfera con “Le Idi di marzo”, l’ironia dei riferimenti colti al servizio di un episodio dalle chiare influenze Beat, ritornello tormentone nello stile di una band come Il Triangolo.

Ci sono poi due tracce, “Ammorbidente” e la title track, che sposano senza remore il linguaggio del Punk: la prima è diretta e senza pretese, due accordi, gran tiro, tanto potenziale; la seconda cita neanche troppo scopertamente i CCCP, un assalto sonoro dal testo sarcastico, a ridicolizzare quel che sarà ricordato come uno degli elementi più iconici di questa pandemia.

E il giudizio sul presente emerge chiaro e desolante soprattutto in “Poeti”, un Indie Rock a tratti anthemico, a tratti profumato di Slacker, che trasforma il dramma del lockdown in un inno generazionale che potrà forse apparire pretenzioso ai più (“Abbiamo fatto tutti i nostri sacrifici” è stato detto e ripetuto un po’ ovunque) ma che riflette in maniera autentica le sofferenze vissute, cristallizzandole attraverso una successione di versi dall’indubbia efficacia (“Il fallimento è la più grande aspirazione umana"; “E io non so che farmene del mal di stomaco quotidiano, non voglio stare ad aspettare alcun risvolto agostiniano”). Funzionerà anche molto bene dal vivo, il crescendo di intensità che sa sprigionare nel corso dei suoi due minuti e mezzo di durata è decisamente di quelli da ricordare.

“Nulla mi urterebbe di più” è invece una riflessione sul futuro a partire da un ipotetico dialogo con suo padre. “Devi prendere una sorta di decisione, non c’è bisogno di spiegazione” è il mantra che sostiene il ritornello e tutto il brano, un andamento malinconico dato anche dalle aperture melodiche del violoncello.

Tante idee, tanta ispirazione, un’esperienza forte da comunicare. Un esordio di quelli forti, da non lasciarsi scappare.