Gli ultimi anni non sono stati facili, per Conor Oberst: nel 2014 una donna lo accusò di molestie, salvo poi ammettere di essersi completamente inventata la storia. Lo stesso anno dovette interrompere il tour coi Desaparecidos, il suo side project di stampo Punk, per una laringite che lo fece finire in ospedale. Nel 2016 è poi morto suo fratello Matthew e l’anno successivo ha divorziato dalla moglie Corina Figueroa Ecamilla (i due oggi sono in buoni rapporti, è infatti sua la voce in spagnolo e inglese che recita in apertura al disco).
Che la decisione di riprendere in mano i Bright Eyes a quasi dieci anni di distanza (l’ultimo disco in studio, “The People's Key”, è del 2011) sia dovuta al desiderio di esorcizzare questi dolori o, piuttosto, dall'urgenza di esprimere un giudizio sull'America di Trump, non è dato sapere.
Di sicuro c’è che “Down in The Weeds, Where The World Once Was”, a partire dal titolo sinistramente apocalittico, si muove equamente tra il senso di perdita e la rabbia per il presente. Allo stesso tempo, è inevitabile leggerlo come manifesto o, piuttosto, come Instant Book su questo nostro mondo Post pandemico, nonostante la musica qui contenuta sia stata composta e in gran parte registrata prima di febbraio.
Ma probabilmente è inutile lanciarsi in dietrologie: il ritorno dei Bright Eyes è un fatto obbligato, dal momento che si sta parlando di un gruppo che, per lo meno negli Stati Uniti, ha fatto la storia del rock indipendente (basti pensare ai diversi riconoscimenti pubblici o al fatto, più unico che raro, che Oberst sia presente nel ruolo di personaggio all'interno di “Libertà” di John Franzen, uno scrittore la cui importanza non occorre certo rimarcare) e che, tra le altre cose, è formato da tre persone legate da solidissima amicizia.
In effetti quando glielo hanno chiesto, sia Mike Mogis che Nate Walcott hanno rimarcato la naturalezza assoluta con cui questa reunion è avvenuta. Mogis, che ha anche prodotto il disco e che è tra i fondatori della storica Saddle Creek, conosce Oberst da quando il giovane cantautore di Omaha aveva 14 anni, gli ha pubblicato il primo disco e si è unito al progetto già da quello successivo. Walcott (che aveva deciso di smettere di suonare dal vivo ma che poco dopo si è ritrovato ad accompagnare i Red Hot Chili Peppers in giro per il mondo) è arrivato nel 2002 ma da allora è sempre stato presente, a costituire il terzo membro di un nucleo centrale attorno a cui, disco dopo disco, hanno ruotato tantissimi ospiti e collaboratori. Ce ne sono diversi anche a questo giro, a partire da un'orchestra di 40 elementi, finendo con due illustri nomi come Flea al basso e Jon Theodore alla batteria (Mars Volta, Queens of the Stone Age), fuori dall'usuale background dei nostri e per questo in grado di portare nuovi stimoli e suggestioni.
Non che sia dipeso solamente da loro: sin dall’inizio dei lavori, i tre si erano dati come obiettivo quello di non ripetersi, di rimanere sì fedeli al proprio marchio di fabbrica ma di aggiornarlo al tempo presente. A partire da questo, hanno lavorato soprattutto sui dettagli, costruendo strutture ed incastri ritmici mai provati, sui quali la voce di Conor potesse svettare in maniera inedita.
Il risultato finale, in realtà, non sorprende più di tanto: l'ex ragazzo prodigio del Nebraska nella sua prolifica carriera ha sempre alternato ispirazione sopraffina ad un eclettismo a volte esagerato, una voglia di uscire dagli schemi e di lasciarsi trascinare dall'istante che ci ha regalato dei capolavori ma anche diversi momenti più dispersivi e difficili da inquadrare.
Dimostrato, col progetto Better Oblivion Community in sodalizio con Phoebe Bridgers, di avere ancora parecchie frecce al proprio arco, ha lasciato perdere gli svolazzi per concentrarsi sull'essenziale, dando ai suoi compagni d'avventura una serie di canzoni non poi così distanti da quelle contenute su “The People's Key”.
Sono tutto sommato i Bright Eyes che ricordavamo meglio, quelli che ascoltiamo sui singoli “Persona Non Grata” (impreziosita da un'ottima bagpipe) e “Marianna Trench”, che ha un piacevole andamento Pop, le solite linee vocali killer e uno splendido break centrale coi fiati in evidenza. Un futuro classico dal vivo, dovessero mai ripartire i concerti, così come anche “Forced Convalescence”, che è più malinconica ma che contiene tutto il fascino delle migliori composizioni del gruppo.
Molto classica anche “Dance and Sing”, col violino in evidenza ed un finale dilatato dove risalta tutta la passione dei tre per la musica da camera. Al contrario, “Hot Car in The Sun” richiama il songbook dei Wilco mentre “Just Once in the World”, dalle atmosfere più solari, si avvicina, nel suo andamento Lo Fi, alle primissime composizioni di Oberst.
Dal canto loro, Mogis e Walcott fanno uno splendido lavoro, affiancandolo e dettando i tempi di composizioni che, pur nella non prevedibilità degli schemi, si muovono in modo vivace, assumendo di volta in volta tonalità acustiche, riempiendosi di elettricità, appoggiandosi sui Synth o ancora, sviluppando piacevoli aperture orchestrali.
Difficile trovare un brano sotto tono (forse la sola “To Death's Heart” è un po’ dispersiva, mentre “Pan and Broom” scorre via del tutto inoffensiva), per un gruppo che mantiene alta l'ispirazione e si produce in alcune vette assolute, dimostrando che nel suo campo ha ancora ben pochi rivali: da questo punto di vista, “Stairwell Song”, col ritornello in crescendo e la coda orchestrale, è un piccolo capolavoro ma anche “Calais To Dover”, ballata densa di rimpianto e nostalgia, non scherza.
Il finale, con “Comet Song”, è tipico loro, all’insegna dell'Indie Rock più solare e cristallino, altra canzone che andrà senza dubbio ad impreziosire i futuri concerti.
Per nulla passatista o ammiccante, questo ritorno dei Bright Eyes dopo dieci anni ce li restituisce in ottima forma e senza dubbio in grado di muoversi in un mondo musicale profondamente mutato. Per chi non li conoscesse, potrebbe addirittura valere la pena iniziare da qui.