Layne sembra volatilizzato, sparito nel nulla: non risponde più al telefono e non apre la porta di casa a chi lo cerca. Non è nuovo a questi comportamenti, lo sa sua mamma, Nancy McCallum, lo sanno i componenti della band, lo sanno i suoi amici più stretti. Due settimane, però, sono troppe, è un’assenza lunghissima, anche per Layne. L’amico e batterista degli Alice In Chains, Sean Kinney, è il più preoccupato di tutti, lo è da sempre, tanto che, d’accordo con una contabile, fa controllare il conto corrente di Staley, per avere una prova certa della sua esistenza in vita.
Il 19 aprile, la contabile lo avverte: “Sean, guarda che Layne non preleva più nulla da quattordici giorni”. Sean chiama subito la polizia e la mamma di Layne, e tutti corrono nell’appartamento di Seattle, in cui il cantante vive da tempo. Nessuno risponde, si sente solo il miagolio disperato della gatta di cui Staley si prendeva cura. La polizia sfonda la porta, costringendo Nancy a restare fuori; sopraffatta dalla preoccupazione, però, Nancy si divincola ed entra. Layne giace sul divano, in avanzato stato di decomposizione. Pesa quaranta chili e ha ancora la siringa fatale infilata nel braccio. Overdose di speedball, si leggerà poi nell’autopsia, un miscela letale di cocaina e eroina. Nancy abbraccia il corpo del figlio, lo tiene stretto per cinque lunghissimi minuti, per un ultimo straziante saluto a quel ragazzo difficile, incapace di trovare un senso alla propria vita, che non fosse in una dose di eroina.
Sean Kinney, ebbe a dire successivamente: “Con Layne abbiamo assistito al suicidio più lungo della storia”, e mai parole hanno colto il senso ultimo di quella assurda e disperata corsa verso l’autodistruzione. Anima tormentata e fragile, segnata dall’allontanamento del padre, Philip Staley, in tenera età, e, successivamente, dai rapporti burrascosi con la madre e il padrino, Layne inizia a drogarsi fin da ragazzo, e quando partecipa alle registrazioni di Dirt, il disco che consegnerà gli Alice In Chains alla leggenda, è già un tossico conclamato, ha già superato abbondantemente il punto di non ritorno.
Fa fatica a gestire il successo, fa fatica a rapportarsi con gli altri membri della band, con cui scazza in continuazione. Sopravvive, però, e tira avanti tra mille difficoltà, perché nel suo cuore c’è l’amore grande e totalizzante per Demri Parrot, la donna della sua vita, l’ex fidanzata di cui è ancora innamorato, l’unica che comprende a fondo l’animo del cantante. Layne ci prova, ci prova disperatamente: entra in clinica per disintossicarsi, non una, ma dieci volte. Una lotta impari contro il male di vivere, che lo vedrà soccombere definitivamente quando, ad ottobre 1996, Demri muore a causa di complicazioni cardiache dovute all’abuso di droghe.
Da quel momento in avanti, per Staley è una lenta discesa negli inferi, un percorso tragico di solitudine autoimposta, di dipendenze sempre più esiziali. Fino a quando, nella notte fra il 4 e il 5 aprile, lo stesso giorno in cui otto anni prima Kurt Cobain lasciava questa terra, arriva l’iniezione fatale, quella che restituirà a Layne la pace che non è mai riuscito a trovare in terra. Una fine che il cantante ha cercato con autodistruttiva pertinacia, dose di eroina dopo dose di eroina, consapevole che quello, e nessun altro, sarebbe stato il suo destino. Layne sapeva sarebbe finita così, le canzoni che scriveva raccontavano la sua vita e le sue dipendenze, presagivano la catastrofe, ammiccavano a una tragica e prematura morte.
Dirt, in tal senso, è un disco cupo, ossianico, spinto nelle tenebre da liriche che raccontano il suo rapporto con le droghe (Sickman, Junkhead, Dirt), che ricordano amici morti per overdose (Would? dedicata a Andrew Wood), che aprono a preveggenti visioni di morte (Rain When I Die), e che tratteggiano lividi scenari di disperazione (Down In a Hole).
E’ in quest’ultimo brano, pubblicato il 30 agosto del 1993 come quarto singolo da Dirt, che si racchiude tutta la parabola di Staley. Una richiesta d’aiuto, che resterà inascoltata, l’immagine del buco, evidente e tangibile mortificazione corporea di ogni iniezione di eroina, ma anche metafora di una vita nascosta, sofferente, lontana dagli altri che non capiscono, che sanno solo procurare dolore.
“Down in a hole, feelin' so small, Down in a hole, losin' my soul, I'd like to fly, but my wings have been so denied” sono versi che tratteggiano il profilo di Layne meglio di qualsiasi biografia: sentirsi piccolo e inadeguato al mondo, vendere la propria anima alla droga, provare a riprendere il volo, a tornare libero, ma accorgersi di non avere più le ali, desiderare di essere altrove e di essere qualcun altro, bisogno recitato in quei versi struggenti, Sand rains down and here I sit, Holding rare flowers in a tomb (oh I want to be inside of you), Oh I want to be inside.
Layne canterà nuovamente Down In A Hole la sera del 10 aprile del 1996, al Majestic Theatre della Brooklyn Academy of Music, per registrare uno di quegli Unplugged, che ai tempi andavano tanto di moda. E’ pallido, emaciato, quasi un fantasma. Ed è visibilmente confuso, dimentica le parole, sembra un pesce fuor d’acqua. Canta, però, canta divinamente, con quella voce tossica e potente, che sa scuoterti le ossa fin dentro al midollo. La sua versione di Down In A Hole , segnata da quell’attimo di smarrimento nel finale, è semplicemente da brividi. Una sorta di canto del cigno, un testamento artistico, la definitiva presa di coscienza che la propria vita sta volgendo al termine. Il lascito emotivo di una delle voci più intense e disperate di sempre, il saluto al mondo di un ragazzo che non ha saputo vivere un solo giorno della propria esistenza, e ora vive, amato da tutti, nell'eternità delle sue canzoni.