Devo ammettere che la curiosità per l'opera seconda di Olivia Wilde in veste di regista non era poca, questo soprattutto in virtù di uno degli esordi nella commedia più divertenti e ben dosati degli ultimi anni. Con La rivincita delle sfigate la Wilde affrontava con piglio sciolto e diretto una commedia adolescenziale al femminile che metteva in scena situazioni e temi che il pubblico è stato abituato negli anni a vedere al cinema declinati in chiave maschile, lo faceva con intelligenza, senza troppe remore né timore reverenziale e soprattutto con un film che si rivelò divertente nella maniera più schietta possibile, una bellissima sorpresa.
Con questa seconda opera che cambia completamente genere e registro la Wilde si conferma regista capace e dotata di un certo gusto per la messa in scena e per la confezione del prodotto, qui meno diretto e più "pensato" del precedente.
Ciò nonostante Don't worry darling, pur affascinando e inanellando punti a favore non trascurabili, risulta meno a fuoco e riuscito del precedente lavoro della regista e attrice newyorkese, vuoi per un genere magari a lei meno congeniale (e derivativo in maniera netta e lampante), vuoi per alcune scelte in fase di sceneggiatura non completamente azzeccate nonostante alla scrittura compaia la stessa Katie Silberman già presente al tavolo de La rivincita delle sfigate.
L'attesa è stata poi fomentata anche dalla curiosità "gossippara" del vedere diretto dalla Wilde la sua all'epoca nuova fiamma, il cantante Harry Styles (nulla di memorabile la sua prova a dir la verità, meglio come cantante).
America anni 50. Jack (Harry Styles) e Alice Chambers (Florence Pugh) sono una bella coppia di sposini che da qualche tempo si è trasferita nel paesino di Victory, una sorta di piccola comunità idilliaca sorta nel bel mezzo del deserto e che sembra soddisfare molte di quelle caratteristiche che il sogno americano di quegli anni spingeva allettando uomini e donne dell'epoca del boom economico a farne parte godendosene tutti i vantaggi. Ed è così che Jack e Alice si sono trasferiti a Victory, lui per far parte del progetto Victory, azienda di quella specie di guru futurista di Frank (Chris Pine) che dà anche nome alla cittadina, lei per seguire il suo amato maritino e sostenerlo nel perseguire i suoi sogni.
I due sono inseriti in un contesto florido: belle case, vicini di casa che presto sono diventati amici come Dean (Nick Kroll) e Bunny (Olivia Wilde), auto prestanti e colorate, feste e gratitudine da parte del capo Frank, alcol, piscine, chiacchiere e per Jack (e per gli altri uomini) un lavoro entusiasmante e segretissimo. Ma sotto la superficie di questa utopia perfetta e ristretta cova qualche inquietudine.
Una delle mogli di Victory, Margaret (Kiki Layne), contravviene a una delle regole basilari dettate da Frank: mai avventurarsi nel deserto per andare a curiosare dalle parti della sede dell'azienda. Nel suo peregrinare Margaret perde nel deserto suo figlio in quello che agli occhi degli pare essere un incidente; per la donna la scomparsa del bambino è la punizione per non aver rispettato le regole di Frank. Poco a poco Margaret viene esclusa dalla vita comune e solo Alice sembra dispiacersi per l'amica.
Quando sarà proprio Alice a inoltrarsi nel deserto le cose diverranno complicate anche per lei, all'apparenza e in tempi diversi anche per Jack che si troverà in una situazione di imbarazzo nei confronti del leader della comunità e dei suoi vicini e amici. Ma Alice non mollerà, vorrà venire a capo dei misteri di Victory.
Per la sua seconda opera la Wilde sceglie di mettere in scena un film che, senza svelarvi nulla, solo all'apparenza sembra rientrare nel genere che potremmo definire "retro fantascienza distopica". Nel ricreare l'ambiente dei 50 la Wilde ricorre a un décor impeccabile, indovinato e realizzato in maniera meravigliosa. I colori, gli abiti, i giochi di luce, alcuni momenti coreografati (gli uomini che vanno a lavoro in auto al mattino), alcune abitudini reiterate, riportano al sogno americano di quell'epoca, un salto all'indietro per un film intriso di istanze contemporanee legate in particolar modo (unicamente?) al ruolo della donna e alla sopraffazione del maschio.
A Victory gli uomini lavorano, fanno parte di un progetto ambizioso e misterioso, importante: alla domanda "cosa facciamo qui?" Frank risponde "cambiamo il mondo". Niente meno, però nessuno, nemmeno lo spettatore, sa di preciso cosa facciano questi uomini a Victory. E di certo non lo sanno le loro mogli che non possono lavorare, non possono nemmeno avvicinarsi all'azienda, non si devono preoccupare degli strani tremori che si sentono ogni tanto nella cittadina; loro, le donne, possono però rifare i letti, essere perfette, vedersi con la amiche, tenersi in forma, bere whisky, preparare dei bei pranzetti e organizzare feste, tutto nell'ottica di un'organizzazione domestica e di vicinato volta a supportare il lavoro così importante dei loro mariti. Quando sono fortunate possono contare su una bella sessione di sesso orale.
La Wilde mette chiara sul piatto la sua istanza femminista che prende ancor più corpo su un finale che aggrava ancor di più la situazioni di questi uomini (a questo punto tutti terribili immaginiamo, almeno per quel che si può intuire dal plot twist presentato), distruttori del libero arbitrio femminile e orchi di questa idea nostalgica di (micro)mondo che ahiloro si sgretola come oggi si sta sgretolando la virilità maschile.
Ora, tralasciando la sensazione di già visto sia nella struttura del film sia nei sottotesti lampanti e davvero poco sottili, all'interno di un film peraltro per una buona parte ben costruito, ciò che lascia perplessi è una costruzione che dà l'impressione di essere non conclusa e chiarificata nonostante lo svelamento finale che invece di dare soddisfazione allo spettatore lascia un po' delusi con la voglia di tornare a quelle vaghe e pindariche supposizioni che ognuno di noi spettatori si era costruito nelle prime battute del film.
Non un brutto film nel complesso, la regia della Wilde è solida l'attrice si conferma interessante forse più dietro la macchina che davanti (anche perché qui è eclissata da una Florence Pugh ancora una volta stupenda nell'inquietudine come già in Midsommar), perde un po' il polso della narrazione lungo la via, come se andando per quel deserto avesse anche lei subito un senso di smarrimento, proprio come capitato (forse) al figlio (forse) di Margaret.