Prendete un uomo su una sedia a rotelle, come fare a non trovarlo simpatico, a non amarlo, a non provare pena/amore per lui? O prendete un film che di un uomo su una sedia a rotelle parla, parla di come ci è finito su quella sedia, di come ha affrontato i suoi demoni, e di come è rinato, grazie ad un pennarello, a un foglio di carta. Difficile, vero? Soprattutto se la storia è vera, se è la storia di un vignettista che i temi spinosi li affronta di petto sulle sue vignette, parlando - male, con ironia - di neri, ebrei, lesbiche, di KKK, della sua stessa condizione di tetraplegico ed ex alcolista. Soprattutto se ad interpretarlo è uno come Joaquin Phoenix, che si vede quanto si è calato nella parte, quanto ci si impegna, per far rivivere lo spirito di John Callahan. E allora, proviamo a non parlarne male, perché a conti fatti non c'è niente da criticare severamente in Don't worry. Gus Van Sant torna su terreni più consoni dopo lo scivolone de La foresta dei sogni, dirigendo un biopic che doveva essere interpretato da Robin Williams, e il suo spirito, la sua presenza, qua e là si sente, e lo si immagina senza problemi nel ruolo di un alcolista ed ex alcolista che cerca di mettere rabbia e dolore da parte, per rinascere attraverso la comicità. Van Sant riesce a non scadere troppo nel buonismo, ad evitare la trappola di un biopic convenzionale, saltando nel tempo, andando indietro, avanti, facendo percorrere a John i suoi 12 passi, superare i suoi ostacoli. Forse, però, mette troppa carne al fuoco, tra comprimari (l'ormai magro e irriconoscibile Jonah Hill, la simpatica Beth Ditto, la solita maschera di Jack Black) che non trovano lo spazio necessario per evolvere e l'amore (negli eterei panni di Rooney Mara) che si intromette per poco e in modo quasi frettoloso come frettolosamente viene gestita la scoperta di un talento e di una vena ironica che sfocia in disegni, in caustiche battute. E forse, a rendermi un po' restia oltre alla mancanza del ritmo, del frizzo giusto in questa struttura del racconto, è anche un umorismo lontano dal mio: sono poche le vignette di John che mi hanno fatto ridere davvero, troppe quelle che han suscitato solo un sorriso di circostanza, amaro. Ma, parlar male di una vita esagerata, inizialmente piuttosto odiosa, a tratti troppo ancorata alla fede e al passato (con tanto di spirito materno che compare e che sì, il naso me l'ha fatto storcere), ma che poi ha saputo rinascere davvero, non si può. Come non si può parlar male di un film che sa essere onesto e sincero, sa non essere troppo ruffiano e sa mostrare dolore, dipendenza, rinascita in modo diverso. E allora, per questa volta, va bene così, va bene farci accompagnare all'uscita dalla voce e dalla musica dello stesso Callahan senza pretendere di più.