Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
Don’t Go Throwing Roses in My Bed
Gregor Barnett
2022  (Epitaph)
CLASSIC ROCK AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS
7,5/10
all REVIEWS
17/03/2022
Gregor Barnett
Don’t Go Throwing Roses in My Bed
Gregor Barnett dei Menzingers debutta da solista con “Don’t Go Throwing Roses in My Bed”, un album ammantato di americana e folk che ha come tema centrale la memoria.

Parafrasando Agatha Christie: se due indizi sono una coincidenza, tre indizi fanno certamente una prova. È questa la prima cosa che viene in mente dopo aver ascoltato Don’t Go Throwing Roses in My Bed, debutto solista di Gregor Barnett, chitarrista e cantante dei Menzingers, una delle punk band più amate e rispettate dell’ultimo decennio. Già, perché il sound del disco, così ammantato di americana e folk, non può non ricordare il percorso intrapreso nel recente passato anche da altri due artisti che come lui si sono mossi tra il New Jersey e la Pennsylvania, ovvero Dave Hause e Brian Fallon. Entrambi, infatti, dopo aver dato uno scossone al punk con The Loved Ones e The Gaslight Anthem, hanno lasciato quel filone guardando all’esempio di Tom Petty (Hause) e Bruce Springsteen (Fallon). Proprio come sta facendo ora Barnett, che per Don’t Go Throwing Roses in My Bed si è ispirato a Tom Waits e Warren Zevon. A questo punto è proprio vero: ai frontman delle band punk di Garden State e Keystone State, superata la soglia dei trent’anni, scatta inevitabilmente qualcosa, una sorta di ritorno a casa, nel tentativo di abbracciare il mito e rielaborare una musica che sembra inscritta nel codice genetico di chi vive da quelle parti.

 

Come molti dei lavori pubblicati negli ultimi 18 mesi, anche Don’t Go Throwing Roses in My Bed nasce in risposta alla pandemia da COVID-19. Con i Menzingers, Barnett aveva già affrontato lo stop forzato dei concerti (la band era in tour in Australia quando il mondo si è fermato) incidendo From Exile, una rivisitazione in chiave acustica dell’album Hello Exile del 2019. Ma con il protrarsi dell’inattività live e con un orizzonte degli eventi sempre più indecifrabile, Gregor ha deciso di sfruttare il tanto tempo libero a disposizione imbracciando la chitarra e scrivendo nuove canzoni, senza un progetto ben preciso e solo per piacere di farlo. Non era la prima volta che Barnett si è ritrovato a comporre canzoni distanti dal sound dei Menzingers, ma questa volta nel processo di scrittura Gregor non ha visto solo un banale esercizio creativo, ma ha trovato soprattutto un’occasione di terapia emotiva, nella quale incanalare l’ansia da quarantena e superare la preoccupazione per la salute dei suoi familiari e il dolore per la morte del nonno, con il quale aveva vissuto dopo il divorzio dei suoi genitori.

 

Lavorando nel suo studio casalingo a Philadelphia, a poco a poco Barnett si è accorto che nelle canzoni che aveva composto era possibile riscontrare non solo i soliti accenni a Bruce Springsteen e Joe Strummer, ma anche qualcosa di più profondo e ancestrale, spiritualmente affine alla roots music, che fosse il blues di Leadbelly o il folk a bassa fedeltà dei Mountain Goats. Una volta compreso di avere in mano un vero e proprio album, per Gregor entrare in studio si è rivelata una decisione naturale, anche grazie all’intercessione del produttore Will Yip (Nothing, The Wonder Years, Quicksand), già al lavoro nei dischi più recenti dei Menzingers. Nonostante la natura personale del progetto, però, Barnett ha voluto in studio con sé solo facce familiari, per cui alla batteria c’è lo stesso Yip mentre troviamo i compagni di band Eric Keen al basso e Joe Godino alle percussioni, a Tom May, invece, è spettato il compito di scattato la foto di copertina.

 

Il disco si apre con un pezzo di ampio respiro, il rock di “Oh Lord, What Do You Know?”, nel quale si intravedono tracce dei Killers più desertici; prosegue poi con “Driving Through the Night”, forse la canzone più simile al classico emo punk rivisitato in chiave heartland rock dei Manzingers; mentre in “The First Dead Body I Ever Saw” siamo dalle parti di un classic rock meticciato in salsa tex-mex. Ma nell’album non mancano riferimenti all’amato alt-country dei primi Wilco (“Talking to Your Tombstone”) e alle murder ballads di Nick Cave, per non parlare del folk rock alla Billy Bragg, di cui si può ravvisare un’impronta in “Don’t Go Throwing Roses in My Grave”, un pezzo nel quale Barnett riflette sul concetto di mortalità. Da qui in poi, il disco si fa più ombroso e riflessivo, con canzoni dove Greg indugia sul concetto di paura e paranoia (“No Peace of Mind to Rest”), lasciando uscire i suoi demoni, come nelle autobiografiche “Hurry Me Down to Hades” (sostenuta da un riff molto alla Joe Walsh) e “At a Greyhound Station, Desperate”, dove racconta un viaggio fatto da adolescente dalla casa di famiglia a Scranton al New Jersey, dove abitava il padre.

 

Non è quindi un caso che Don’t Go Throwing Roses in My Bed si chiuda con un altro pezzo autobiografico, l’agrodolce “Guest in Your House”, dove Barnett racconta i primi giorni a casa dei nonni in seguito al divorzio dei suoi genitori. La canzone è composta da una serie di scene domestiche da tipica provincia americana che sembrano uscite da un romanzo di Jonathan Franzen, che il protagonista rivive come se fossero accadute solo il giorno prima. Sebbene le difficoltà, la malattia e la morte abbiano preteso la loro parte di vita, qualcosa di tutto questo è rimasto: l’amore e la gratitudine per le persone amate che ci hanno cresciuto. In una parola, la memoria.