Partiamo dal termine deep funk. Con questa parola si definisce un genere ritmato e pregno di groove, ma c’è di più, ed è nascosto in quel deep: la profondità dietro cui si nasconde l’identità di questa definizione serve in realtà a sottolineare non tanto la cupezza o l’umore di chi scrive musica, ma un aspetto appena più muscolare e nervoso; un groove che scava tanto a fondo da scoprirne i fasci muscolari.
Con questo termine viene identificato il lavoro cui ci ha abituato Joel Ricci, trombettista, multistrumentista, compositore e arrangiatore che, dai primi Duemila, smuove animi e nervi di questo genere dall’altra parte dell’oceano, precisamente a Seattle. Considerato da molti uno dei pionieri del deep funk, si era fatto notare nel 2011 per un paio di felici uscite con la Tramp records sotto nome di Lucky Brown, non ancora inserite per intero nel catalogo digitale. Ed è con questo spirito che l'etichetta ha pensato di fare uscire, a più di dieci anni di distanza, il catalogo completo sotto forma di due dischi rimasterizzati ed arricchito da extra.
Don’t Go Away e Space Dream riescono a tenere alta la bandiera del funk non rinunciando a quel lo-fi sporco di cui era stata impregnata la sala di Joe per quei dischi.
"Lucky Seven" getta subito l'ascoltatore in quel groove che non lascia scampo, ma non solo. Ci sono una scrittura e un suono che, fusi insieme alla maestria con cui viene trattato il funk, lasciano di stucco, anzi, in uno stato di beatitudine, dove vorresti che quel momento continuasse semplicemente a scorrere fluido, mantenendoti in quello stato di pace.
Batteria in evidente stato di grazia, in cui le cose semplici vengono meravigliosamente concepite ed eseguite; basso giusto, tondo, nascosto ma motore e organo; chitarra che spennella interventi e tocchi di ritmo insieme ai fiati, quei fiati che sembrano tenuti dentro una magica bolla sonora.
C’è del James Brown, senza ombra di dubbio, registrato in digitale ma sempre nel 1966, con quella microfonazione spettacolare e che oggi definiamo vintage e che continuiamo a studiare, cercare di capire e riproporre negli studi per avvicinarsi il più possibile a quella di allora.
Il solo di chitarra è qualcosa davvero di particolare, che colpisce come indizio estremo della validità nella dimensione live.
"Potatocakes" non si sposta dal baricentro e mantiene le aspettative, affidando le trame d’improvvisazione al Fender Rhodes. Meno interessante sotto un puro aspetto di variazioni, che sono ridotte al minimo, lasciando gestire la canzone a una linea di basso pressoché unica in tutto il brano. Il suono è particolare, particolarmente interessante: sfiora il demo, ma è pregno di suono e di coinvolgimento, di lo-fi, di mix filtrato in qualcosa di conclusivo, e funziona nonostante i sette minuti abbondanti di durata.
"Izzi Come, Izzy Go" punta moltissimo sulla ripetizione del giro di partenza, premendo un po’ troppo sulla monotonia della linea di basso, davvero senza alcuna variazione eccetto lo stacco che giunge almeno due o tre volte e differenzia le varie sezioni di canzone. Perde un po’ i colpi questa canzone, facendo assaporare appena un sentimento di noia.
Con "Scatterbrain" si allenta ancora di un poco la tensione emotiva per gettarsi a capofitto nell’arrangiamento. Traccia che fa sentite una punta di debolezza.
"Deal With It" parte come un razzo, complice anche una linea di basso che pare assurdamente "L’ombelico del mondo" più rallentata; ha una bella maniera di portarlo, come questa scala minore che riesce a farci stare più tranquilli. Stacchi di finitura che delimitano i momenti di libertà del brano e dei suoi momenti di improvvisazione. Non c’è fretta nel groove e infatti i giri scorrono con estrema naturalezza.
"Don’t go away" e il suo lancio di fiati iniziali che sembra portarci oltre il margine di sicurezza riesce a prendersi lo scettro di best track, aiutata da un cantato che pare improvvisato ma che contiene il dono di essere facilmente replicabile. Ed è un attimo che lo canti insieme a loro. L’incastro tra fiati e ritmo dei fusti è magico.
Tocca a "The Fresh One" chiudere il disco e si permette quasi di abbassare i toni, consapevoli di essere tenuti in piedi da quel sangue irrefrenabile che scorre nelle vene. Il solo del flauto accompagna il brano verso l’incredibile momento solista di batteria che, pur non scostandosi da figure ritmiche regolari, riesce a tenere alta l'attenzione permettendoci di vedere oltre.
L’altro capitolo di questa preziosa uscita si chiama Space Dream, e non fa che confermare quanto di buono si è colto in Don’t go away, se vogliamo alzando ancora più il tiro sul centro del discorso, sul funk, sull’attimo che deve essere colto, in ogni maniera.
"Jesse’s Party" apre il disco, come dentro ad una saletta in cui sta per esplodere una festa e dove qualche voce fuori campo sta per diventare protagonista col proprio strumento. Groove di batteria che sembra lanciato dal nulla, salvo subire l’attracco spietato dei fiati e del loro tema che schianta a terra chi lo ascolta. Il solo di sax è una spada che trafigge ed è un punto altissimo del disco.
Non è da meno "Redbeard" che continua il discorso, complice un riff che è pura colla: è impossibile staccarsi. Le parole, i versi di chi suona e solfeggia dirigendo con una libertà selvaggia fanno parte di questa bellezza nella stessa maniera in cui il “take me to the bridge” di James Brown fa parte di “Sex Machine”.
Neanche a farlo apposta, la terza traccia chiama nell'uso della chitarra la succitata opera d’arte del nostro padrino, giusto appena più lento. Siamo alle prove, ascoltando un complesso di musicisti che suonano e dove la produzione sonora fa parte puramente dell’esecuzione e del sound del mix, totalmente asciutto e privo di aiuti, di ambienti artificiosi o eccessi di compressione. Siamo semplicemente dentro la loro stanza.
E così scorre "Fireball", unica con un accenno di produzione pensata e realizzata con un fade out telecomandato per uscire da questa jam, seguita da "Streamed Greens", col suo appoggio posato e incastrato. È tutto scritto e bene: fiati, batteria e basso, oltre a una chitarra ben calibrata che sembra stare attenta a non rompere le uova nel paniere. Traccia lunga, piena di soli, temi di allaccio e di uscita. Solo di chitarra meraviglioso, pulito, sotto di volume, tanto da doverselo cercare in questa stanza. C’è Maceo Parker, non in questa registrazione, ma si respira con quel groove infinito che cattura nei suoi live (e chi lo ha visto sa di cosa parlo); quel silenzio che sembra esserci in quello spazio tra due soli, dedicato al puro godimento ritmico, senza fretta alcuna. Discesa di volume e via.
Tocca a "She’s a Hard Working Woman" partire con quel suo tema di fiati che sembra scherzosamente vezzeggiare una gallina nel tipico "Funky Chicken", come avrebbe detto Rufus Thomas. È forse un momento stanco, magari dell’ascolto, ma niente smette di funzionare eccetto quella malsana necessità di equilibrio e di dosaggio a cui ci siamo abituati nel mainstream e ormai non solo, per rendere l’attenzione di un ascoltatore sempre incollata e mai persa, fosse mai che si cambi canale. Qua non esiste niente di tutto ciò e l’apparente mancanza di rispetto diventa in realtà il più alto e puro coinvolgimento. Capita, ma sempre meno spesso di imbattersi in ascolti del genere, e sono tesori, credetemi. Non so, a questo proposito, quanto sia casuale il fatto che ci troviamo di fronte a roba suonata una quindicina di anni fa.
"Space Dream" ha un passo reggae non troppo marcato, ma c’è e regala una nuova sensazione in cui annegare e assopirsi. “Il naufragare mi è dolce in questo” dub. Ha fatto tutto lei.
Il basso introduce "Scarlet Runner" e il particolare della cordiera del rullante che infastidisce ogni nota sottolineandola va ad arricchire i ricordi unici di questo disco. Siamo nel solito funk, tirato, calibrato. L’ultimo sprazzo di genere prima della perla finale.
"Forever" ci saluta in maniera definitiva e lo fa con questo arpeggio in tre che non può non ricordarci “I want you (she’s so heavy)”, mescolandosi alla vena compositiva cui ormai ci siamo abituati alla perfezione con questi due album. Forse è il brano con il messaggio più ampio, pur non necessitando di allungare la durata media, ma anzi chiudendo il discorso non appena raggiunto il climax. Piccolo artificio produttivo e sonoro, che sa di cielo, di spazio e di pianeti.
Siamo di fronte ad un manifesto. Il deep funk dimostra di avere un suono, una rotta, un capitano. Poco importa che questo suono non sia di oggi, ma venga dagli inizi degli anni Dieci, ciò che conta è che il capitano ci sia tuttora e che ci porti con sé a giro per queste galassie.