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Don't Fear The Reaper
Blue Oyster Cult
1976  (Columbia Records)
CLASSIC ROCK
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20/01/2020
Blue Oyster Cult
Don't Fear The Reaper
Don't Fear The Reaper, oltre ad aver venduto moltissimo, si consolida nel tempo come un evergreen rock che, a più di quarant’anni dalla sua uscita, non ha ceduto un grammo del proprio peso specifico al logorio del tempo

Nel 1976, quando esce Agents Of Fortune, il disco di maggior successo dei Blue Oyster Cult, la band newyorkese ha già esaurito il suo ciclo migliore da un punto di vista creativo. Da questo momento in avanti, infatti, la carriera dei B.O.C. procede in modo altalenante, tra dischi modesti ma commercialmente rilevanti (Cultosaurus Erectus, 1980) e ritorni di fiamma di ottimo livello (Fire Of Unknow Origin, 1981, il disco che contiene Burnin’ For You e Joan Crawford, per intenderci).

Agents Of Fortune è, in tal senso, un disco spartiacque: lascia alle spalle capolavori come Tyranny And Mutation (1973) e Secret Treaties (1974), apre al declino successivo, ma porta in eredità il successo planetario e quei riscontri commerciali (disco d’oro e disco di platino) che precedentemente erano mancati.

Il merito dell’exploit è da ricondursi soprattutto a Don’t Fear The Reaper, terzo brano in scaletta, che azzanna le classifiche (settima piazza in Canada, dodicesima negli States, sedicesima in Inghilterra), consegnando i B.O.C. all’eternità. Già, perché la canzone, oltre ad aver venduto moltissimo, si consolida nel tempo come un evergreen rock che, a più di quarant’anni dalla sua uscita, non ha ceduto un grammo del proprio peso specifico al logorio del tempo.

Scritta dal chitarrista Donald ”Buck Dharma” Roeser, la canzone sollevò non poche polemiche al momento della sua uscita, in quanto il testo ambiguo sembrava contenere un esplicito invito al suicidio (the reaper, il mietitore, è un ovvio richiamo a una delle iconografie tradizionali attraverso cui la morte viene umanizzata, sia al cinema che in letteratura). Fu lo stesso autore, però, a fugare ogni dubbio a proposito del contenuto testuale. Roeser, infatti, ha sempre sostenuto di aver scritto la canzone, immaginandosi cosa sarebbe successo se fosse morto in giovane età (l’uomo gode ancora di ottima salute) e di quanto sia stupido temere qualcosa di ineluttabile, a cui inevitabilmente tutti, prima o poi, dovranno rendere conto (“40, 000 men and women everyday”: quarantamila uomini e donne muoiono ogni giorno).

A prescindere da questa prima quasi banale evidenza, la bellezza del testo risiede semmai nella citazione shakespeariana di Romeo e Giulietta, che sposta il tema principale della narrazione dalla morte all’amore. Non quindi l’ennesimo riferimento al suicidio (tutti sanno come finisce la tragedia di Shakespeare), ma invece l’assimilazione fra l’eternità che unisce la morte alla più pura e totalizzante forma d’amore (nel sentire comune, non esiste amore umano più alto – anzi ne è l’archetipo- di quello fra i due sfortunati amanti veronesi).

A volerci spingere oltre (ben oltre le intenzioni del suo autore) il testo, inconsapevolmente, si ricollega al mito classico di Orfeo e Euridice, straziante e commovente storia che da sempre ha ispirato musicisti e letterati e che accosta per la prima volta il tema dell’aldilà (gli inferi) e dell’ineluttabilità della morte a quello di un amore che cerca disperatamente di lottare contro il fato per guadagnarsi le porte dell’eternità (in ambito rock, per dire, i Genesis, intorno al mito di Orfeo ed Euridice, avevano costruito la loro The Musical Box).

Da un punto di vista squisitamente musicale, i cinque minuti e dieci secondi che compongono il brano sono magistralmente costruiti intorno a uno dei riff più celebri di sempre. Un riff acchiappone, di presa facilissima e dai sentori byrdsiani, perfetto per i passaggi radiofonici, morbido, ipnotico e al contempo vivace, capace di restituire la sospensione amniotica dell’eternità e di creare una sfasatura profonda fra l’evanescenza estatica delle note e la dimensione gotica del tema trattato. Che ritorna, poi, inquietante, come un ghigno sinistro, nella lunga esitazione centrale, in cui le chitarre creano un vortice che risucchia l’ascoltatore verso uno sprofondo buio e dolorosissimo, per poi spingerlo nuovamente verso l’alto, verso l’estasi di un amore eterno come eterna è la morte.

Oltre al grande lavoro alle chitarre di Bloom e Roeser, l’architrave su cui si poggia la melodia del brano è costituito dallo spettacolare intreccio fra i cori e i controcanti che, nello specifico, assumono un ruolo centrale rispetto al cantato gentile di Bloom.

Ultima nota di colore: Don’t Fear The Reaper fu inserita da John Carpenter nella colonna sonora del suo film Halloween (1978), circostanza che contribuì ad alimentare ulteriormente il mito della canzone.


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