“Se vuoi imparare qualcosa dalla vita attraverso gli occhi di un cinico romantico, vai in un qualsiasi bar di Dublino”. Lo ha detto Grian Chatten, il cantante dei Fontaines D.C., durante un’intervista di qualche mese fa. Potrebbe esserci tutto quel che serve per capire il quintetto irlandese, in questa frase. Le origini profondamente dublinesi (la band nasce lì, anche se quattro dei suoi cinque membri provengono da altre città), l'immaginario da quartiere popolare che anima i loro testi (lo stesso titolo “Dogrel” indica un tipo di poesia tipica dei pub), lo humor nero che trasuda nelle loro canzoni. Il nome che si sono scelti è del resto tutto un programma: Johnny Fontaine era quel cantante de “Il Padrino”, quello che all'inizio del film ha bisogno di avere una parte importante in una pellicola di prossima realizzazione ma il produttore non lo vuole e allora Marlon Brando/Vito Corleone manda la famosa “offerta che non si può rifiutare”.
“Abbiamo scelto questo nome per scherzo - spiegano - perché ci piaceva l’idea che la gente ci collegasse ad un immaginario mafioso, volevamo che si pensasse che stavamo facendo carriera perché avevamo dei padrini che ci proteggevano.”
Tutto questo era un paio d'anni fa, più o meno. Il D.C. lo hanno aggiunto in seguito, principalmente per problemi legali: c’era un gruppo, a Los Angeles, che si chiamava allo stesso modo e allora hanno messo quelle due lettere, che stanno per “Dublin City”, a marcare orgogliosamente un'appartenenza territoriale.
Ovviamente non c’è nessuna mafia che ne sorveglia le gesta, semplicemente l'hype clamoroso di cui sono oggetti, le “Great Expectations” che da tempo circondano il loro album d'esordio, sono dovute esclusivamente ad una concreta qualità musicale. Che però, a pensarci bene, da sola non basta. Perché i Fontaines D.C., oltre a scrivere ottime canzoni, hanno anche l'attitudine giusta, che è composta da un misto di coscienza dei propri mezzi, carisma, personalità, retroterra culturale (si sono conosciuti al college, citano con disinvoltura Kerouac e Joyce nei loro testi) e quella capacità comunicativa che, in un'epoca “social” come la nostra, è pressoché impossibile sottovalutare.
“Dogrel” finirà in tantissime classifiche di fine anno. Di sicuro sarà incluso nella mia e in posizioni altissime, perché era davvero tanto tempo che non provavo un simile entusiasmo per l'opera prima di qualsivoglia band. Però è anche vero che, come ho già detto, siamo tutti qui a parlare di questo disco perché è da un anno e mezzo che questi cinque ragazzini sono sulla bocca di tutti quindi, da un certo punto di vista, questo senso di eccitazione è non solo normale ma forse in qualche modo obbligato.
Poi c’è anche il fatto che questo è un album che conoscevamo già: gran parte della tracklist era nota da tempo, ci sono dentro tutti i singoli che hanno fatto uscire dal 2017 ad oggi, anche se quelli più vecchi sono stati registrati da capo.
Tutti questi fattori non possono però impedirci di venire spazzati via dalla qualità della musica contenuta in questi 40 minuti scarsi.
“Te lo ricordi quando è uscito il primo disco delle Savages? - mi ha detto un amico l'altro giorno - allora si respirava più o meno lo stesso entusiasmo”. Vero. Se non fosse che “Dogrel”, per quanto mi riguarda, è molto meglio di “Silence Yourself” (le ragazze, che tra parentesi sono anche loro irlandesi, a mio parere hanno fatto il salto di qualità solo col successivo “Adore Life”).
Questo dei Fontaines D.C. è già un’opera di sconvolgente maturità, la serietà ed il rigore con cui suonano è davvero fuori dal comune, non lo diresti mai che hanno tutti da poco passato i venti anni.
C’è poi un altro dato, e non è per nulla banale: ad un primo ascolto sarebbe facile etichettarli come una band derivativa, accostarli ai nomi che vanno per la maggiore in terra britannica, IDLES, Shame, Daughters, Sleaford Mods e compagnia bella, protagonisti di quella nuova ondata che sta riportando in auge sia le chitarre, sia una certa attitudine “working class” legata ad un immaginario Punk n Roll con venature Wave.
È così, certo. Non ritrovare questa impronta nel loro sound sarebbe assurdo, così come non tirare in ballo i nomi sopra citati. Eppure, dicevamo, c’è molto di più. C’è innanzitutto che il linguaggio che si sono scelti è solo il punto di partenza, quasi un pretesto, per elaborare una visione che appare molto più contemporanea che citazionista. Ce ne sono, di deja vu, nella loro produzione, ma la freschezza che emanano le loro canzoni fa sì che ce ne dimentichiamo presto.
E poi c’è la varietà, l'eterogeneità degli episodi. Normalmente dischi come questo appaiono monolitici e, pur se di alta qualità, la direzione in cui si muovono è più o meno sempre quella.
“Dogrel” invece stupisce per l'alto numero di riferimenti e per i diversi approcci nel processo di scrittura tentati dalla band: così se l'opener “Big” e la successiva “Sha Sha Sha” rileggono la lezione degli IDLES, “Too Real” presenta un chiaro richiamo ai Fall (peraltro il cantato di Chatten, gradevolmente stonato e irriverente, ha più di un punto in comune con quello di Mark E. Smith) ma già “Television Screen” sorprende con un giro di chitarra a la New Order che si fonde con una linea vocale che evoca gli Smiths.
Ancora, “Hurricane Laughter”, uno dei primi singoli, è un assalto sonoro senza compromessi e non potrebbe esserci contrasto migliore con “Roy's Tune”, un pezzo dagli umori malinconici che può a tratti ricordare il Lou Reed di “Coney Island Baby” e “The Blue Mask”.
Serve altro? E allora diciamo che “The Lotts”, ispirata al quartiere dove i cinque avevano la sala prove, sede di un pub piuttosto conosciuto, un posto “dove camminando bisognava stare attenti a schivare le siringhe per terra”, è un mezzo capolavoro, col suo andamento iniziale a la Joy Division che evita le accuse di plagio grazie ad una linea vocale superlativa, per un brano che immagino dal vivo farà sfracelli.
E se le successive “Chequeless Reckless”, “Liberty Belle”, e “Boys in the Better Land” riportano il disco su sentieri più convenzionali, fatti di anthemiche sfuriate Punk, la conclusiva “Dublin City Sky”, versione trasandata di una classica ballata della tradizione Irish, diventa un commiato che sa di commovente attaccamento alle proprie radici.
E non dimentichiamoci poi della produzione di Don Carey (Kate Tempest, SIA, Franz Ferdinand, Emiliana Torrini, Bat for Lashes e altri) che ha tirato fuori un sound che mescola potenza e pulizia e riesce allo stesso tempo ad apparire selvaggio e spietato. Con, bisogna aggiungerlo, una cura notevole delle parti strumentali, lineari ma mai banali, che evocano un gruppo di amici abituato a suonare insieme e che sa esattamente come muoversi per rendere interessante la struttura di una canzone.
Ben lungi dall'essere un prodotto della Retromania imperante, “Dogrel” consacra i Fontaines D.C. come una delle migliori realtà di questi ultimi anni e spalanca degli scenari che, se tutto andrà come speriamo, potrebbero davvero rivelarsi sorprendenti.