In un memorabile racconto di Borges, Pierre Menard, l’omonimo protagonista decide di riscrivere, parola per parola, riga per riga, il Don Chisciotte di Cervantes. Il nuovo testo, posteriore di tre secoli, pur verbalmente identico, sarebbe risultato paradossalmente ben più ricco del precedente poiché saturo di significati storici e filosofici intercorsi tra la prima e la seconda stesura.
I norvegesi Elephant9, più modestamente, decidono di riscrivere, anche loro quasi alla lettera, un disco di progressive jazz degli anni Settanta e ci riescono perfettamente.
Eilertsen (basso), Lofthus (batteria; ottimo) e soprattutto l’organista Ståle Storløkken (già con i ben più arditi Supersilent e collaboratore dello storico chitarrista Terje Rypdal) allestiscono un ensemble compatto dal suono piacevolmente deja entendu; ognuno ricerchi le influenze che i Nostri solleticano, Keith Emerson, Egg, Weather Report (gli ultimi due pezzi “Doctor Honoris Causa” e “Directions”, sono rifacimenti di pezzi di Joe Zawinul) oppure Soft Machine.
A differenza dell’opera di Menard il tempo non gioca a favore del trio nordico: negli anni Settanta la forma libera, anche caricata di valenze politiche libertarie, riscattava dai lacci della canzone classica, e l’improvvisazione e la suite erano dichiarazioni d’indipendenza precise. Oggi, polverizzati gli stili e annientato l’impegno radicale, rimane esclusivamente il rimando esteriore a quel periodo irripetibile.
Il disco brilla allora per ciò che evita: ipertecnicismi, riferimenti paleosinfonici e simile paccottiglia colorata. Ne viene perciò un’opera sorprendentemente sobria, ovviamente ben interpretata e, innegabilmente, come detto, piacevole, a partire dal pezzo eponimo.
Gli amanti del genere avranno di che godere. Ma non si gridi al miracolo.