Chi è stato a vedere Nick Cave nelle tre date che lui e i suoi Bad Seeds hanno tenuto a novembre a Padova, Milano e Roma, non troverà nulla di nuovo in questo “Distant Sky – Live in Copenhagen”, se non la possibilità di rivedere, in alta definizione e da differenti angolature, uno spettacolo che è stato senza dubbio di inequivocabile bellezza e di rara intensità.
Si è scritto fin troppo di “Skeleton Tree”, il disco che Nick Cave ha pubblicato a settembre 2016, un anno dopo la tragica scomparsa del figlio Arthur. Un disco che solo in parte fa riferimento esplicito a quello che è successo (gran parte dei brani era già pronta all’epoca del fatto) ma che è ammantato da cima a fondo da una tragedia con la quale è necessario fare i conti ma che allo stesso tempo sembra insormontabile per le sole forze umane.
Avevamo seguito l’artista australiano nella sua decisione di aprire le porte della sua anima e di lasciarsi scrutare il fondo del suo abisso di dolore: “One More Time With Feeling”, il documentario che raccontava la genesi del disco, era stato difficilissimo da guardare ma ci aveva anche schiuso la possibilità che scrivere canzoni potesse davvero svolgere la funzione di domare i propri demoni.
È stato un paradosso, il tour di “Skeleton Tree” ma in fondo era giusto che fosse così: il lavoro più intimo, più spoglio e desolato che Cave avesse mai scritto, portato dal vivo in un tour lunghissimo, che ha attraversato tre continenti e che ha visto lui e i suoi musicisti esibirsi nei grandi palazzetti.
Alla fine, quindi, ha scelto di non isolarsi: di darsi in pasto al pubblico, di immergersi in esso, di farsi toccare, abbracciare, adorare dalle prime file, molto di più di quanto avesse fatto in passato.
È un concerto musicalmente impegnativo, quello che si dipana per le due ore e mezza di una scaletta immobile e priva di sussulti. I pezzi nuovi richiedono silenzio e un ascolto concentrato, con le sonorità scarnificate e l’atmosfera raccolta di una confessione silenziosa.
Ci sono i grandi classici ma l’odierna incarnazione dei Bad Seeds ha imbrigliato la furia degli esordi in un caos geometrico e razionalmente studiato, così che le versioni di “Tupelo”, “From Her To Eternity”, “The Mercy Seat”, tra le pochissime concessioni alla pesantezza e al rumorismo, risultano in fin dei conti molto più ricercate rispetto al tempo in cui furono scritte.
In tutto questo, il grande protagonista è il pubblico: anche a Copenaghen devoto e adorante così come l’avevamo visto a Padova e a Milano. La regia indugia spesso sui primi piani: occhi lucidi e facce concentrate sono ciò che si vede più spesso. Gli occhi lucidi che sono gli stessi di Cave, commosso di fronte a certi versi più eloquenti di altri, ma in generale desideroso di avviare una conversazione intima con le migliaia di persone che ha davanti. Lo vediamo spesso e volentieri immerso nelle prime file, come quando in “Higgs Boson Blues” fa sentire il battito del suo cuore, o quando in “The Weeping Song” raggiunge la pedana della telecamera e canta tutta la seconda parte del brano facendo battere le mani e dando ai presenti il microfono da reggere.
Fino ad arrivare all’abbraccio collettivo di “Stagger Lee”, con decine di fan sul palco a ballare indiavolati, la distanza tra artista e pubblico finalmente annullata; la successiva “Push The Sky Away”, il singer al centro del palco e i fan seduti tutt’intorno a lui, che suona come un augurio, un invito.
Prima dei bis c’erano stati “Distant Sky”, che adesso giustamente dà il titolo alla pellicola, essendo il brano che si apre al cosmo, all’eterno, nell’invocare un viaggio che i due interlocutori (Nick e la moglie Susie?) faranno insieme, se riusciranno a trovare la strada. Per l’occasione Else Torp, la voce femminile sul brano, è presente in carne e ossa (dopotutto siamo a casa sua) e viene in mente che potrebbe essere stata questa, la ragione per scegliere Copenaghen come città in cui filmare il concerto.
Concerto difficile, dicevamo, con poche concessioni ai brani più noti e di facile presa: tra questi, “The Ship Song” e soprattutto “Into My Arms” generano singalong di grande effetto e appaiono sia come atti d’amore incondizionato che come momenti per rifiatare.
Nonostante tutto, per più di due ore si sta in apnea e non c’è verso di riemergere neppure per sbaglio. Pensavo che sarebbe stato un déjà vu, avendo assistito a due concerti di questo tour, ma mi sbagliavo di grosso: c’è talmente tanta ansia comunicativa in questo spettacolo, tanta speranza che l’immersione nel proprio lavoro, l’abbraccio della gente, possa in qualche modo lenire il dolore, che anche davanti ad un semplice schermo cinematografico non si può far calare l’attenzione. Tutto questo, anche grazie alla sapiente regia di David Barnard, che utilizza un montaggio semplice e piuttosto classico (non ci sono mille telecamere e la regia è tutto sommato equilibrata, senza un alternarsi frenetico di inquadrature) per farci cogliere l’assetto complessivo della band e quei piccoli dettagli che ci rendono maggiormente partecipi di ciò che accade sul palco (finalmente siamo riusciti a vedere il foglio contenente alcune parole chiave del ritornello di “The Mercy Seat” preparato da una fan e donato a Nick durante una delle prime date, in modo tale da aiutarlo a non dimenticarsi più le parole).
Un documento di enorme valore, di assoluta verità, che vale la pena vedere in ogni caso: che abbiate o non abbiate visto di persona quest’ultimo tour, che siate o non siate fan di Nick Cave e dei Bad Seeds. E dopo averlo visto, capirete che non è vero che tutto è artefatto nel mondo dell’arte, che tutto nella musica ruota attorno al mestiere, alla professione. Guardando quest’uomo magro e scavato agitarsi sul palco e buttar fuori l’anima a forza di canzoni, si ha davvero l’impressione che possa accadere un’amicizia autentica tra un artista e il proprio pubblico. Si ha l’impressione che possa servire anche questo, stringersi in un abbraccio vero e dirsi che certi dolori non andranno mai via ma che è possibile trovare un punto solido a cui aggrapparsi per rimanere in piedi.
Dopo tutto la sua prossima iniziativa sarà un tour al centro del quale non ci sarà la musica, bensì il dialogo col pubblico: è evidente come questo sia un tentativo che vuole continuare a fare.