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REVIEWSLE RECENSIONI
19/12/2017
Dish-Is-Nein
Dish-Is-Nein
Questo è il disco che aspettavamo: fiero, glaciale, voluttuosamente ardito, austero, salace: una feroce lezione di stile in un'epoca di feroce sciatteria.

“Il tempo viene meno

La vita come perdita di stile

La gioventù ad oltranza

Un’altra malattia senile

Espianti ciò che eri

In vista di un milione di domani

Ma intanto ciò che speri

Ti sfugge come sabbia dalle mani”

(“La chiave della libertà”, Dish-Is-Nein)

 

Sette decenni di (falsa) pace e tu guarda come ci siamo infrolliti; nello spirito, nel corpo, nel cuore. Sette decenni di (falsa) pace son bastati a inchiavardarci nella filantropia pecoreccia e manichea del (falso) benessere economico globale; a trasfigurarci in un popolo di eunuchi masochisti, di molluschi che si autoflagellano, di babbei accomodanti senza più identità e pensiero individuale (Vade retro!), un gregge al pascolo nel veleno mediatico quotidiano, un esercito di zombie annientati dall’ipnosi collettiva orwelliana del progressismo, della tecnologia e della (falsa)  uguaglianza. Non suonerà nuovo a chi mi segue anche altrove, ma occorre qui citare (e quindi far mio, a mo’ di premessa) uno stralcio tolto da un pamphlet di un amico e collega: “Ci vuole una guerra. Dolore, lutti, devastazioni, privazioni, chiusura alla speranza, paura. Lo dico subito: ci pentiremo di aver scritto queste parole; esse ci danneranno. Dovremo trascinarle come un piombo da galeotto per il resto della vita. Calamiteranno infamie. Eppure sono necessarie; dirò di più: inevitabili. Per la salvezza occorre una guerra: ecco un buon destino per la Patria; per noi tutti.”

Pur tenendo in sommo spregio qualsivoglia forma di compromesso, dobbiamo accontentarci, in mancanza d’una guerra risanatrice, del ritorno necessario e inevitabile dei Disciplinatha. Che non si chiamano più Disciplinatha, ma Dish-Is-Nein. Accontentiamoci, dunque, per il momento, di [Dish-Is-Nein]: non è poco. Presto arriverà anche la guerra, ve lo garantisco.

Nessun ammorbidimento, nessuna caduta nel manierismo, nessuna resa alle seducenti sirene traditrici della (nazional)popolarità, nessun compromesso equivoco, nessuna servile concessione alla doppia morale o all’umanitarismo equosolidale da banchetto etnico, nessuna contaminazione col politicamente corretto, nessuno scivolone noi luoghi comuni che affliggono la “scena” musicale italiana del disimpegno impegnato e dei buoni sentimenti più deteriori, nessun accenno di feticismo indie. Questo è il disco che aspettavamo: fiero, glaciale, voluttuosamente ardito, austero, salace: una feroce lezione di stile in un'epoca di feroce sciatteria.

La festa sta finendo, lo stupido ombelico

sul quale ballavate non è più tanto amico

e vi dà gusto odiare chi se n’era accorto,

ormai lo si può dire: la ragione aveva torto.

(“Toxin”)

https://www.facebook.com/Disciplinatha/videos/1707985629276584/

Bersaglio centrato: è evidente a chiunque che la, ehm, filosofia panciafichista del “jovanottismo” - nella sua accezione più ampia, ergo inclusiva non solo della manifesta sciattezza ibrido-derivativa in ambito squisitamente musicale (leggi: il nulla), ma anche, nel suo essere pagliaccescamente spensierata e arrogantemente ottimista, dell’infida propaganda che inneggia coi suoi grevi tromboni allo sradicamento culturale mediante il multiculturalismo da operetta e le concrezioni perbeniste, la solidarietà liofilizzata e la fratellanza da McDonalds, la disinformazione chirurgica e la favola ciarlatana del mondo globale, lo starnazzare parossistico del (neo-)femminismo, le puttanate tonitruanti della fabiofazietà  prezzolata e il lutulento slappaculismo filoeuropeista dei media et cetera[1] - sia uno dei mali (senza dubbio il più pericoloso) di questa Italia “addomesticata nel miraggio della partecipazione”[2].

Con rigore spietatamente lucido e affilato, Dish-Is-Nein mette a nudo la carcassa del pensiero dominante, la disseziona per meglio esibirne la necrosi occulte, ne disvela il volto, ipocrita e falso, in sei brucianti composizioni che non mostrano cedimento alcuno e s’ammantano d’una magnificenza che in Italia, quanto a potenza, eleganza, profondità di pensiero, sostrato culturale, bellezza, non ha, attualmente, paragoni. (Non li aveva nemmeno ai tempi di Abbiamo pazientato 40 anni. Ora basta!, a dire il vero: nel 1988 i Disciplinatha avevano già visto molto, molto lontano).

Musicisti d’eccezione, Cristiano Santini, Dario Parisini e Marco Maiani ovvero i tre quarti della formazione originale, si avvalgono, per questa rentrée in grande stile (repetita iuvant), dell’apporto di Justin Bennet (Skinny Puppy) alla batteria, propulsore granitico e disciplinato, e della collaborazione di Renato Mercy Carpaneto (leader degli Ianva; per inciso: il loro sontuoso  Canone Europeo - assieme a Del mare la distanza[3] di Miro Sassolini - è la cosa più bella che l’Italia abbia prodotto nel 2017 in ambito musicale) per quanto concerne i testi.

A richiamare le radici ormai dimenticate (ed è significativo che siano le loro voci le prime a farsi ascoltare), le splendide corali della tradizione alpina italiana cantate dal Coro Monte Calisio nel brano d’apertura, “La chiave della libertà” (“O fucile, vecchio mio compagno / O mio compagno nel combattimento / Tu che vali forse più di un regno / Sei la chiave della libertà”) e nel suo germano “L’ultima notte”, arricchito da una splendida coda strumentale (“Era la bianca notte di Natale / ed era l’ultima notte degli alpini / Tutto ora tace a illuminar la neve / eppure s’alza l’ombra di una voce”), si stagliano ariose, nella loro severa compostezza, al di sopra della raffigurazione atmosferica generalmente cupa e rabbiosa di cui è intessuto l’EP.

La dirompente “Macht Frei”, che inquadra le lobby costruite attorno alle tematiche “calde” (“femen strike”, “occupy”, “gay pride”, “human rights”, “deportation of souls”) e le istituzioni nazi-finanziarie della nostra epoca (“international money fund”, “european central bank”) come il nuovo Reich, testimonia in modo eloquente non solo della loro natura tirannica e dittatoria ma anche del diffuso disagio psicotico di massa suscitato dagli organi di propaganda: il beffardo cameo finale che richiama il “no future” settantasettino, con voce infantile dalla pronuncia tipicamente “maccheronica”, viene qui spogliato dell’originale naïveté caciarona a firma Sex Pistols per farsi monito minaccioso: più che un omaggio appare un’inquietante profezia. Non sfugga quel “rights on demand” (“diritti su richiesta”), perfetta sintesi dei mortificanti anni che stiamo vivendo in materia, appunto, di diritti, anch’essi ormai acquistabili sui vostri negozi online preferiti. Il tutto benedetto (o maledetto?) da Ratzinger...

Cesellata d’intarsi industrial, e impreziosita dalla voce di Valeria Cevolani, “Eva” è un assalto metallico che schiuma violenza e livore senza tuttavia perdere mai il controllo; assieme alla succitata “Macht Frei” e “Toxin” (superba cavalcata costruita su fiammeggianti ascensioni che - se proprio un paragone vogliamo tirarlo fuori -  ricordano i migliori Nine Inch Nails) forma un trittico sonoro la cui devastante potenza si contrappone ai tre episodi più misurati, vale a dire “La chiave della libertà”, “L’ultima notte” e la conclusiva “Finale”, paesaggio strumentale pianistico di desolante e suggestiva bellezza, colonna sonora di una finis terrae dove ominicchi lobotomizzati peregrinano senza meta: questo il futuro che ci attende se continuiamo ad aspettare “la fatina buona del cazzo”.

Risparmiatemi di pensarvi così cretini da non capire che Dish-Is-Nein è un immenso, bellissimo, sfolgorante vaffanculo scagliato come guanto di sfida in faccia alla iattanza dei guardiani di verità bugiarde e manipolatorie. Non avranno nemmeno il coraggio di raccoglierlo e accettare il duello; i codardi, i vili, i pavidi fantocci faranno finta di niente, come sempre, e seguiteranno a salmodiare di pace che nei fatti è guerra dissimulata, di amore che nei fatti è schiavismo, di fratellanza che nei fatti è fratricidio, con l’ottimismo idiota che ci ha condotti nel baratro; continueranno a cantare le lodi della vita che ci stanno rubando.

Gli occupanti

Dileguano allo spegnersi del sole

E gli assediati

Rovistano ricurvi le rovine

Tutti perdenti

La notte infine porterà consiglio

Nel suo protrarsi

Per un millennio ancora

 


Da aggiungere ai tesori della patria

 

[1] La lista sarebbe pressoché infinita…

[2] E. Ruggeri, “L’onda” (Frankenstein 2.0, 2014, Any Way)

[3] Che vede, peraltro, Cristiano Santini alle chitarre e alla produzione artistica.


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