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REVIEWSLE RECENSIONI
27/08/2017
Low Cut Connie
Dirty Pictures Vol.1
Il merito dei Low Cut Connie è quello di evitare ogni stucchevole passatismo, rileggendo con modernità la musica dei mostri sacri e rendendo nuovamente entusiasmante una materia importante, ma la cui pedissequa rilettura sarebbe del tutto inutile

I Low Cut Connie arrivano da Philadelphia e hanno già all’attivo tre dischi, di cui la stampa specializzata ha parlato un gran bene. Soprattutto perché il quintetto quando sale sul palco è a dir poco travolgente: capitanati da Adam Weiner, un novello Jerry Lee Lewis che suona un pianoforte chiamato Shondra, i Low Cut Connie non fanno prigionieri, tanto che Dan Weiss, firma musicale prestigiosa del Los Angeles Weekly, ha definito i loro show di una ferocia che non ha eguali al mondo. Band revivalista, vengo spesso etichettati come band che guarda alla stagione d’oro del rock’n’roll anni ’50. La qual cosa è vera solo in parte, visto che, come avviene in questo nuovo Dirty Pictures, i ragazzi di Philadelphia prendono ispirazione, senza farsi troppi problemi, da tutta la storia del rock. Il loro merito, però, è quello di evitare ogni stucchevole passatismo, rileggendo con modernità la musica dei mostri sacri e rendendo nuovamente entusiasmante una materia importante, ma la cui pedissequa rilettura sarebbe del tutto inutile. Registrato presso gli Ardent Studios di Memphis, Dirty Pictures è un disco è un disco breve (dura poco più di mezz’ora) ma che riesce a dire tutto ciò che si è prefissato, centrando perfettamente l’obbiettivo, senza fronzoli e inutili fillers. Si parte con Revolution Rock’n’Roll che, ha dispetto del titolo, è invece un brano venato di gospel con un ritornello furbissimo che acchiappa fin dal primo ascolto. Dirty Water e Death And Destruction confermano la nomea di rock’n’roll band dei Low Cut Connie e rileggono con piglio sbarazzino quella musica che proprio a Memphis era nata tanti anni fa. Il disco trabocca, poi, di citazioni, a volte al limite del plagio, ma proposte con una sfrontatezza guascona che rende tutto credibile. Il riff rock blues di Love Life è il figliastro funky coloured di Cocaine, versione Eric Clapton; Am I Wrong? fa clamorosamente il verso agli Animals di We Gotta Get Out Of This Place mentre il funkettino di Controversy sembra uscita da un disco degli INXS. C’è ancora spazio per la conclusiva What Size Shoe presa di distanza dalle politiche estere degli States (Ain't this the United States/Ain't this the home of the brave?) e Montreal, ballata per pianoforte che ha fra i suoi parenti stretti Thirteen dei Big Star (che guarda caso, proprio agli Ardent Studios di Memphis hanno scritto pagine immortali). Dirty Pictures è, dunque, un disco vario e divertente, che guarda al passato, plasmandolo però a uso e consumo delle orecchie di tanti giovani che non sanno quanta bella musica si può trovare nei dischi di papà e (del nonno). Un modo leggero e intelligente di riappropriarsi e divulgare le radici del rock.