Oggi, ascoltare classic rock è il gesto più anticonvenzionale che esista. Basta dare una rapida occhiata ai social per capire quanto questa musica sia oggetto di sberleffi, quanto gli appassionati del genere siano tacciati di passatismo, vecchi ruderi che vivono nei ricordi di una musica obsoleta, slegata al presente e ispirata a icone ormai svuotate di significato. Ed è strano, poi, vedere coloro che dovrebbero difendere, con le unghie e coi denti, la musica che amano, indossare i panni di spietati detrattori di giovani band (vedi Greta Van Fleet) che cercano di emulare, e a volte ci riescono pure, le gesta di quei gruppi che hanno scritto la storia (e la leggenda) del rock.
Eppure, nonostante tutto, ci sono ancora gruppi che tengono viva questa musica, che, indifferenti alle mode, con vibrante passione, continuano ad attizzare un fuoco che altrimenti si sarebbe spento da anni. Originari di Los Angeles, i Dirty Honey esordiscono con un disco prodotto e mixato da Nick Didia (Rage Against The Machine, Bruce Springsteen, Stone Temple Pilots, etc) e così classico che più classico non si può. Sono giovani e ancora devono conquistare quella visibilità che, ad ascoltare le otto canzoni in scaletta, già meriterebbero; nel frattempo, in attesa dei giorni di gloria, danno alle stampe questo primo full length, assai spartano, sia nella forma (la confezione minimal e priva di libretto, la durata stringata) che nella sostanza (gli arrangiamenti asciutti, l'approccio grezzo e senza artifici) ma già indicativo di una caratura più che discreta. Il suono, come accennato, guarda al passato e in scaletta i deja vù si sprecano.
L’opener California Dreaming, trainata dal cantato graffiante di Marc Labelle, si spinge in territori cari ai Led Zeppelin, ma con un retrogusto più americano che rimanda ai Black Crowes. Derivativi, si, ma con stile: The Wire possiede un groove pazzesco, così come il nuovo singolo Tired Up, che sembra uscito da un disco degli Aerosmith. Il tutto, però, suonato con un attitudine festaiola e un approccio meno serioso di quello, ad esempio, dei Greta Van Fleet. La sensazione, pertanto, è di autenticità e freschezza, e di un’energia tracimante, che esplode nel riff sporco e martellante di Take My Hand, nella derapata fulminante di Gypsy o nell’ennesima citazione Black Crowes della cazzutissima No Warning.
Chiudono il disco due gioiellini che esaltano nuovamente le doti di Labelle: The Morning, la cui spina dorsale è Ac/Dc al 100%, e Another Last Time, virile ballatona in quota Rolling Stones e metronomo di una band che cita tanto, ma che sa gestire con classe e passione un repertorio altrimenti prevedibile.
I Dirty Honey non sono solo l'ultimo di una lunga serie di gruppi rock ispirati agli anni '70, sono semmai una band che esprime molto più della somma delle evidenti influenze a cui si ispira e che possiede come punto di forza la voce straordinaria di Marc Labelle, capace di trasformare queste belle canzoni in futuri grandi classici di genere. Se il buongiorno si vede dal mattino, sarà una splendida giornata di sole. Rock on!