Lo dico in modo apodittico e con una punta d’orgoglio patriota: se è vero che il suono americano, nei suoi diversi abiti, che siano rock, country o blues, ha seminato proseliti in tutto il mondo, è altrettanto vero che gli interpreti più rigorosi e genuini del genere siamo noi italiani. E’ proprio l’approccio nostrano che cambia: mai frusto copia incolla, mai sbiadita e mera replica, ma un tributo che si fa sempre appassionato e verace, che sa essere competente e filologico, senza tuttavia mai perdere un'entusiasta vena creativa.
In Italia ci sono band e artisti che, a prescindere dalla carta d’identità, potrebbero tranquillamente essere nati e cresciuti artisticamente in Texas e in Tennessee o, perché no, nel Midwest rurale, per quanto suona autentico e sincero il loro grande abbraccio alla musica degli States. Mi vengono in mente i pesaresi Cheap Wine, tanto per fare dei nomi, i Mandolin Brothers di Alessandro Jimmy Ragazzon, Fabrizio Poggi, Ruben Minuto e Luca Andrea Crippa, e da ultimo (last but not least) Leandro Diana.
Siciliano di nascita, ma milanese d’adozione, Diana, a distanza di sette anni dall’esordio (Postcards From Nowhere) e a pochi mesi dalla pubblicazione dell’Ep, Accept And Continue, torna sulle scene con nuovo e gagliardissimo full lenght di rock americano al 100%. Dirty Hands And Gravel Roads, autoprodotto e suonato con la complicità dei bravi Deneb Bucella (batteria) e Giuseppe Diana (pianoforte e hammond), vanta tanti numi tutelari (la Lucinda Williams evocata nel titolo e non solo, John Cougar Mellencamp, Neil Young, John Hiatt, etc.) ma mostra una personalità e uno spirito unico.
Rocker nell’anima, alfiere di un suono che gira senza compromessi intorno a una dardeggiante sei corde, Diana attraversa le interstate americane a bordo di uno sferragliante pick up: sgomma, solleva polvere, azzarda derapate, pigia sull’acceleratore, concedendosi solo qualche breve pausa per tracannare una birra ghiacciata in aree di sevizio perse in mezzo al nulla.
Queste undici canzoni (per quasi un’ora di musica) sono attraversate da un’epica nervosa, raggrumano tutto l’immaginario americano, che sfreccia rapido, fuori dai finestrini. Non c’è tempo per la contemplazione, gli States sono il magnifico scenario per sciabolate elettriche, per un approccio live, crudo e diretto, come se questi brani fossero la trasposizione senza filtri delle tappe di un tour, in cui contano solo il sangue, il sudore, e quell’energia che ti fa stare sul palco finchè si ha fiato in gola, nonostante le vesciche alle dita.
Il tiro diretto e il vento in faccia dell’opener Another Gravel Road rappresentano la perfetta cartina di tornasole di un disco che scheggia le ossa con il rock blues muscolare e nervoso di Burn It All Down Again, che punta l’orizzonte con melodie ariose (Changes, Just Be Gone), che evoca fantasmi hendrixiani (Getaway), che caracolla alticcio (Nothing To Say) e poi si ferma, meditabondo, colto all’improvviso da un pensiero malinconico (One More Day Alive).
Dirty Hands And Gravel Roads è un disco sincero e graffiante, che contagia energia ed entusiasmo e che si fa ascoltare tutto d’un fiato, lasciando nell’aria, come corollario emotivo, un evocativo pulviscolo di polvere e ruggine. E poco importa di non essere in Texas: anche da Milano, se ti affacci alla finestra, puoi scorgere la periferia di Austin.