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REVIEWSLE RECENSIONI
Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd
Lana Del Rey
2023  (Polydor)
ALTERNATIVE POP
8/10
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04/05/2023
Lana Del Rey
Did You Know That There's A Tunnel Under Ocean Blvd
Il disco più malinconico di Lana Del Rey, in cui il tunnel è la metafora di un profondo ragionamento esistenziale, che nasce dal tormento, dal dolore e dalla necessità di una risposta ai grandi temi della vita.

Otto dischi (nove, se si conta quello a nome Lizzy Grant) in tredici anni, sono un bel bottino per un una che fin dagli esordi è stata liquidata da molti come nient'altro che un bel viso, tutto artificio retrò e pop falsamente imbronciato, e ancora oggi, trova più detrattori che estimatori, soprattutto in quella critica d’alto bordo, che spesso incensa artiste con molto meno talento. Lana Del Rey ha sempre rimandato al mittente l'idea che la sua identità musicale corrispondesse a un personaggio costruito a tavolino, dimostrandolo con una discografia brillante e un songwriting affinato con maestria, album dopo album.

Ocean Blvd è l’opera che chiarisce definitivamente tutto questo, il disco che demolisce in modo tombale le critiche di tanti tromboni, che da sempre la indicano come mero fenomeno mainstream. È un lavoro lungo, spesso incredibilmente confessionale, orientato verso domande di natura esistenziale, è il suono di un artista a cui non è rimasto nulla da dimostrare, e che anzi, abbassa il proprio status, come mai prima, a quello di una donna comune che esamina, con disarmante chiarezza, la propria eredità artistica, i propri affetti e il peso incombente della mortalità.

Did You Know That There's a Tunnel Under Ocean Blvd raccoglie 16 canzoni, per la durata di 78 minuti, di musica tentacolare e ipnotica, perfettamente bilanciata fra malinconica sincerità e quell’espressività segnata da un tocco di svenevolezza e melodramma. Più di tutti i suoi predecessori, questo nuovo lavoro parla del (e al) cuore stesso delle cose, i temi affrontati sono filosofici e profondi: l'esistenza di Dio, la morte, il momento preciso in cui l'anima lascia il corpo, i rapporti affettivi, la maternità, il destino, l’eredità di legami familiari che segnano l’esistenza. In tal senso, molte delle canzoni in scaletta danno quasi la sensazione di essere lettere scritte a mano e mai spedite, che raggrumano speranze e dolore, che toccano il profondo del dramma esistenziale, alla ricerca di risposte.

Così come avviene, ad esempio, in "Sweet", splendida ballata pianistica in bilico fra estasi e tormento, in cui la Del Rey espone, senza filtri, la carne viva dei suoi turbamenti amorosi, che sono anche angosce esistenziali: “Se vuoi andare dove nessuno va, È lì che mi troverai…Cosa stai facendo della tua vita? Ci pensi? Ti chiedi da dove veniamo? Ultimamente ci siamo baciati molto, non parlando delle cose che sono al centro delle cose. Vuoi avere bambini? Vuoi sposarmi?”. Quel nichilismo di fondo che era stato il motore dei primi lavori, oggi sembra essere evaporato di fronte alla necessità di porsi domande serie e darsi delle risposte decisive, e non è un caso che il titolo stesso dell’album suggerisca che sotto la patina superficiale esistano profondità nascoste che devono essere esplorate.

Ocean Blvd è, in tal senso, l'album più audace di Lana Del Rey dai tempi di Norman Fucking Rockwell, sebbene sia anche caratterizzato da momenti non centratissimi (il prezzo da pagare alla prolissità). Ma nello straordinario quartetto d’apertura, la ragazza newyorkese stabilisce le coordinate, le ritmiche vellutate di un approccio senza fretta e la sua connessione con il tunnel del titolo, un frammento sigillato e sotterraneo dell'architettura della West Coast, uno dei pochi posti in California dove il sole non può splendere. Superficie e profondità, effimero ed essenza. "Non posso fare a meno di sentirmi un po' come se il mio corpo avesse rovinato la mia anima", canta la Del Rey nella mesta title track, e tutto è chiaro, di una luce, però, che non riguarda il sole ma che attiene, semmai, alla scoperta.  

Perché il corpo è uno specchio per le allodole, una catena pirandelliana che ci rende prigionieri di un’immagine, a dispetto del nostro cuore. In tal senso, la monotona progressione di accordi che caratterizza "A&W" si apre a una delle più cupe riflessioni dell’album: "Guarda i miei capelli, guarda la lunghezza e la forma del mio corpo. Se ti dicessi che sono stata violentata, pensi davvero che qualcuno penserebbe che non l'ho chiesto?". Una posizione femminile e femminista, certo, ma anche uno scioccante j’accuse nei confronti di una critica ipocrita, che l’ha sempre giudicata per l’estetica, e mai per la sostanza.

Non solo. A trentasette anni, la Del Rey sembra profondamente consapevole delle aspettative riposte sulle donne della sua età e i traguardi che dovrebbero raggiungere (matrimonio, maternità) per essere ritenute degne e integrate nella società. Quest’ansia, questo senso di urgenza, si propaga in tutto l'album, ed emerge potente in "Fingertips", in cui la cantante si chiede se sarebbe in grado di essere madre, veicolando quel sentimento di inadeguatezza, condiviso da chiunque si senta incapace di raggiungere gli stessi traguardi nello stesso momento di tutti gli altri.

Ha molto da dire, la Del Rey, e lo dice con la consueta libertà espressiva, sia lessicale che musicale. Lo stile è ormai ben definito, un languido velluto ove scorre una palpabile tristezza, tanto che Ocean Blvd potrebbe essere considerato il suo disco più malinconico, forse anche più di Born To Die e Ultraviolence. Eppure, non mancano variazioni sul tema, come nell’opener "The Grants", in cui Lana arruola Melodye Perry e Pattie Howard (ex coriste di Whitney Houston) per introdurre con accenti gospel l’album di foto di famiglia, tra ricordi gioiosi e tristi (la nascita del primo figlio di sua sorella, l’ultimo sorriso della nonna) e una chiosa ottimista in cui la grazia sigilla un ultimo bilancio esistenziale ("È una vita bellissima, ricorda anche questo per me”).

Ci sono, poi, alcuni duetti (da menzionare la splendida "Candy Necklace" con Jon Batiste e "Let The Light In" con Father John Misty) e brevi incursioni nella trap e nell’hip hop (non succedeva da Lust For Life del 2017), che danno un tocco di discontinuità alla scaletta del disco.

Ocean Blvd si chiude con un trio di brani più leggeri e irriverenti, che si allontanano dalla narrazione principale ("Fishtail", "Peppers" e "Taco Truck") e in cui prevale il non sense e uno sguardo ironico e scazzato, che dà ai momenti conclusivi un tocco di inaspettata leggerezza (d’altra parte, come può essere presa sul serio "Peppers", in cui Lana scopre che la sua guida spirituale altri non è che Anthony Kiedis?).

Tre canzoni che suonano volutamente come un anticlimax, un ritorno al sole californiano dopo aver vagato a lungo nelle atmosfere cupe del tunnel sotterraneo. Lana Del Rey, oggi, è esattamente questo: un’artista a tutto tondo, che sa mischiare le carte, capace di stare in superficie, vestendo (intelligentemente) i panni dell’icona smorfiosa, e scavare nel profondo della vita, raccontando i dubbi e le fragilità di ogni essere umano, grazie a una scrittura sempre più raffinata.