Sono passati più di vent'anni dai fatti del G8 di Genova e dall'ignobile intervento delle forze dell'ordine (?) italiane all'interno della scuola Diaz, ma il resoconto dei fatti di quella notte proposto da Daniele Vicari, costruito sulle dichiarazioni degli atti ufficiali dei processi e su numerose testimonianze dirette, riesce ancora a far montare una rabbia cieca e uno sdegno incolmabile, emozioni aggravate dalla consapevolezza che tra quelle persone indegne di portare una divisa nemmeno uno ha pagato seriamente per i suoi atti atroci. Un'umiliazione e una presa in giro nei confronti non solo di quelle vittime massacrate di botte da quelli che dovrebbero essere dei protettori (dello Stato sempre, prima che del cittadino) bensì un'onta nei confronti di ogni singolo italiano ancora dotato di una seppur minima briciola di compassione, solidarietà e onestà.
Al di là dei meriti puramente cinematografici del film, che a parere di chi scrive ci sono, operazioni come questa di Vicari devono prima di tutto essere viste come documento e insegnamento, viatico di conoscenza ed educazione, perché il repetita iuvant, o almeno dovrebbe, e invece il manganello è sempre lì pronto, l'abbiamo visto a Pisa di recente, fortunatamente con conseguenze meno gravi rispetto a quelle del 2001, film come questo andrebbero fatti vedere ai giovani nonostante la durezza delle immagini, delle emozioni, perché le botte date da quei poliziotti si sentono tutte guardando Diaz, le teste spaccate fanno male, tutte le umiliazioni, le ingiurie, gli sputi arrivano ancora come ferite profonde. Ma qui da noi tutto si giustifica, si dimentica, si archivia, cade in prescrizione, si aggiusta in appello.
E allora che fare? Limitarci a parlare di cinema (che poi non è una limitazione ma passione e privilegio) o andare a ricordare l'episodio, il momento storico, quello che associazioni come Amnesty International definirono come "la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale"?
Certo, qui di solito ci occupiamo di film facendo di tanto in tanto riferimenti inevitabili a situazioni, attualità, contesti; c'è anche da dire che non siamo proprio i Cahiers du cinéma e questo ci consente di fare un po' come ci pare e piace, quindi al di là dei meriti e al di là dei difetti dell'opera filmica, il consiglio è quello di recuperare Diaz - Don't clean up this blood, perché oltre le emozioni che il film suscita, cosa positiva in quanto segno di vita e vitalità, il gesto di riprendere in mano e nella memoria episodi come questo è segnale di giustizia, intesa non come quella negata e che avrebbe dovuto garantire il nostro Stato, ma giustizia in senso di atto dovuto, sacrosanto e giusto nei confronti di quei ragazzi, uomini, donne che tanto hanno dovuto subire in quella notte del 2001.
Solo dopo vengono il film, le scelte di Vicari, gli attori, la narrazione, in primis è necessario che quel sangue non venga lavato, che rimanga sempre lì a monito, perché noi purtroppo facciamo sempre difficoltà a imparare.
Il film di Vicari gode di una struttura tensiva ed emozionale di altissimo livello. Immaginate cosa dev'essere stato girare un film come questo, scomodo e duro, in un contesto dove la parola d'ordine per fatti di questa portata sembra essere "dimenticare" o al limite "minimizzare".
Vicari compie un atto coraggioso mettendo in moto una macchina capace di produrre un risultato tutt'altro che didascalico o meramente divulgativo. Diaz - Don't clean up this blood ha invece tutte le carte in regola per portare avanti un impianto immersivo e capace di coinvolgere lo spettatore sotto tutti i punti di vista.
E' certo un film di parte, schieratissimo, ma anche in questo caso, come accade per molti film di Loach ad esempio, la scelta è più che giustificata da un senso di giustizia sempre più necessario: se al centro del film c'è quella che da molti giornalisti è stata ai tempi definita la "macelleria messicana" perpetrata da alcuni esponenti della Polizia di Stato nei confronti di cittadini italiani e non, giovani e non, Vicari non manca di tratteggiare anche le frange violente appartenenti ai famosi Black Blocks, certo non sono il centro di un film che in realtà non ha protagonisti principali e non vede attori in primo piano. Anche i volti di maggior talento o comunque più noti come quelli di Germano, Santamaria, Calabresi, Scarpa, Geraldi, Acquaroli, Roja, si dividono lo spazio con interpreti sconosciuti al grande pubblico che contribuiscono però a dare un tocco di maggior autenticità alla messa in scena che per quanto possibile cerca di ricostruire senza troppo romanzare. Nonostante non sia mancata qualche critica personalmente non trovo nessuna colpa in questo film, né ideologica né cinematografica.