“Mio Dio, è un periodo troppo duro per persone fragili come me.
So che seguirà un periodo diverso, un periodo di umanesimo.
Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa,
malgrado le mie esperienze quotidiane.”
Ho sempre pensato che non possa esserci un vero futuro in assenza di memoria e che studiare la storia sia fondamentale per comprendere al meglio il presente e molte delle dinamiche culturali e comportamentali degli esseri umani, al fine di evitare, per quanto possibile, il ripetersi di quegli stessi eventi che sovente definiamo come “corsi e ricorsi storici”.
Per Nietzsche, ad esempio, “l’eterno ritorno”, vale a dire, appunto, il ripetersi costante di eventi già accaduti, era fisiologico ed inevitabile: l’esistenza, la conoscenza, così come la storia, non erano viste come una linea retta e progressiva, bensì come un cerchio, una sorta di serpente che si morde la coda, dove la linea ritorna continuamente al punto di partenza, per poi ricominciare nuovamente il suo giro, all’infinito.
In effetti, non si può fare a meno di constatare che a prescindere dalle epoche e dal contesto storico, l’essere umano, che è il protagonista indiscusso della storia, colui che la storia la fa, rimane sostanzialmente identico a sé stesso, in quanto impara raramente dai propri errori, perché in molti casi mancano sia la consapevolezza che la conoscenza dei fatti, così, quel poco di memoria storica che (re)esiste, spesso e volentieri, non corrisponde alla realtà, ma ne è una versione romanzata, mistificata e manipolata.
Così, se è vero, come cantava Francesco De Gregori, che “la storia siamo noi”, non possiamo esimerci dal conoscerla.
A tal proposito, ci sono libri che devono essere letti (e riletti), non solo per imparare, ma anche per mantenere vivo il ricordo di quel che è stato, come monito per il presente e per il futuro; per non dimenticare che la follia umana, grazie a un leader “pifferaio magico” e a una propaganda ad hoc, è stata in grado di manipolare il pensiero della massa - e cioè di tutti coloro che non posseggono strumenti idonei a leggere e comprendere la realtà circostante - spingendosi fino al punto di farle credere che l’annientamento di una razza fosse “cosa buona e giusta”.
Quando i giudici, durante il processo di Norimberga, chiesero a Hermann Göring come avessero fatto i nazisti a far accettare al popolo tedesco tutto quell’orrore, rispose: “È stato facile. E non ha nulla a che fare con il nazismo. Ha a che fare con la natura umana. Lo puoi fare in un regime nazista, socialista, comunista, in una monarchia e anche in una democrazia. L’unica cosa che si deve fare per rendere schiave le persone è impaurirle. Se riuscite a immaginare un modo per impaurire le persone, potete fargli fare quello che volete.”
E cosa c’è di più irrazionale della paura?
Ecco perché cultura, conoscenza e un approccio critico alle cose sono elementi imprescindibili per renderci liberi nel pensiero e nella capacità di discernimento, ma poi, ciò che fa la differenza, e ci rende uomini degni di questo titolo, è il livello di umanità che ci portiamo dentro: “Una volta è un Hitler; un’altra è Ivan il Terribile, per quanto mi riguarda; in un caso è la rassegnazione, in un altro sono le guerre, o la peste e i terremoti e la carestia. Quel che conta in definitiva è come si porta, sopporta, e risolve il dolore, e se si riesce a mantenere intatto un pezzetto della propria anima.”
E di anima, nel Diario di Hetty Hillesum, ce n’è tantissima. È un libro, questo, che merita di essere letto, non solo perché è un documento importantissimo che ci conduce, con infinita delicatezza, in uno dei periodi storici più ripugnanti che l’umanità abbia mai vissuto, ma anche e soprattutto perché ci mostra come sia possibile continuare a rimanere umani e a non odiare il prossimo, pur essendo le vittime di tanta crudeltà.
Quando Hetty Hillesum (Middelburg, 15 gennaio 1914 – Auschwitz, 30 novembre 1943) cominciò a scrivere il suo diario - il 9 marzo del 1941 - era una giovane donna ebrea di 27 anni, e viveva ad Amsterdam, dove si era laureata in giurisprudenza. Era appassionata di lingua e letteratura russa e impartiva lezioni private presso l'università. Desiderava conseguire anche una laurea in lingue slave ma, a causa della guerra, dovette interrompere gli studi. Sempre nello stesso periodo si interessò alla psicologia analitica di Jung e conobbe lo psicochirologo Julius Spier che, da quel momento in poi, diventò una figura centrale della sua vita.
Se oggi abbiamo la fortuna di poter leggere una testimonianza così importante di quel periodo, è solo perché Etty, certa di non sopravvivere a quanto stava accadendo, affidò i suoi 8 quaderni a una sua cara amica, chiedendole di conservarli e consegnarli, una volta finita la guerra, allo scrittore Klaas Smelik, sperando che questi riuscisse a trovare un editore disposto a pubblicarli. Così, grazie alla perseveranza della famiglia Smelik, durata anni e anni, il diario di Etty Hillesium venne pubblicato per la prima volta in Olanda, nel 1981.
Etty amava scrivere, desiderava diventare una scrittrice, farlo di professione e nel suo diario lo ripete più volte. Quel desiderio, poi, è diventato un’esigenza che guardava al futuro, al dopo, a quando avrebbe raccontato ai posteri la sua storia e quella di un intero popolo: “Spero di potermi ricordare tutto di questo periodo, di poterne più tardi raccontare qualcosa. È tutto ben diverso da quel che si legge sui libri, molto diverso. […] Ho la disposizione dell’artista e credo che più tardi, quando sentirò la necessità di raccontare tutto, avrò anche abbastanza talento per farlo.”
Attraverso le sue pagine, ci conduce nella sua vita e ci regala i suoi pensieri, a volte lucidi e a volte ingarbugliati, specchio di un’anima inquieta. La scrittura, per lei, era terapeutica, quasi un esercizio emotivo. Pagine sincere, vere, cariche di passione e di una potenza comunicativa impressionante, capaci di farci sentire sulla pelle cosa significasse, per un ebreo, vivere in quegli anni, con la paura costante di essere strappati dalla propria quotidianità e dai propri affetti: “Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa. Repulsione. Paura.”
Una vita sospesa tra un susseguirsi di ordinanze che si facevano sempre più dure e restrittive, divieti assurdi da accettare e comprendere e rinunce, alcune autoimposte, come fossero una sorta di preparazione fisica e spirituale ad un futuro dai contorni incerti, in cui era in forse la stessa sopravvivenza: “Ho accanto a me la mia colazione: un bicchiere di latticello, due fette imburrate di pane bigio con cocomero e pomodoro. Ho rinunciato al bicchiere di cioccolata che mi concedevo sempre, un po’ di soppiatto, alla domenica mattina, voglio abituarmi a questa colazione più monacale… dobbiamo abituare il nostro corpo a chiederci solo l’indispensabile, soprattutto nel campo del cibo, perché stiamo andando verso tempi difficili: anzi, ci siamo già.”
Però, che sia chiaro, non aspettatevi di ritrovarvi tra le mani pagine cupe e deprimenti, perché nonostante la consapevolezza lucida e dolorosa di tutto ciò che le stava accadendo attorno, il diario di Etty è soprattutto un inno alla vita e lei era un piccolo sole che non smetteva mai di splendere e di portare luce nell’esistenza degli altri, come fosse una missione.
L’immensa fede in Dio, la speranza, l’amore per la vita e per il prossimo erano il centro del suo mondo; così come la poesia di Rilke, Dostoevskij e S. (Julius Spier, suo mentore, guida spirituale, centro dei suoi pensieri).
Etty aveva un canale di comunicazione unico e speciale con Dio, perché nel momento stesso in cui si rivolgeva a lui, in realtà, parlava a sé stessa. Da quei dialoghi traeva linfa vitale e coraggio: “Mi hai resa ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla tua terra, i miei occhi rivolti al cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza.”
Grazie a quella fede così grande, Etty aveva trovato la forza di accettare il suo destino. Ma la sua non è mai stata un’accettazione passiva, tutt’altro, perché lei è stata fino alla fine protagonista della sua vita; ha fatto suo quel destino, lo ha dominato e ha continuato a operare tutte le scelte possibili. Perché se è vero che non ci si può sottrarre al verificarsi di determinati eventi, è altrettanto vero che ciascuno di noi ha sempre la libertà di scegliere come affrontarli.
Etty, infatti, ha sempre scelto. Ha scelto anche quando, pur trovandosi difronte alla possibilità di scappare e salvarsi, ha deciso, con coscienza e convinzione, di non farlo.
Così, il 7 settembre 1943, dopo una lunga permanenza presso il campo di concentramento di Westerbork, Etty Hillesium venne deportata ad Auschwitz, dove, stando a un rapporto della Croce Rossa, morì il 30 novembre del 1943.
Poteva andare in modo diverso? Forse sì, o forse no, non possiamo saperlo, quel che è certo, però, è che ci troviamo davanti ad una vita spezzata, interrotta in modo brusco e a un libro che ce lo racconta senza filtri, con verità. Un libro tutt’altro che semplice da affrontare, non per il libro in sé, che anzi, è pieno di momenti poetici, riflessioni profonde, amore e speranza, ma semplicemente perché è impossibile non provare dolore sapendo quel che Etty e tantissimi altri esseri umani hanno dovuto subire e sopportare a causa del delirio di onnipotenza di menti malate.
Ecco perché voglio ribadire ancora una volta che questo è un libro che bisogna leggere; un libro che devono leggere tutti, soprattutto le nuove generazioni, perché, a costo di scivolare nella retorica, vorrei fare mie le parole di Primo Levi: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.”