Proprio come nella scaramantica formula augurale buona per ogni matrimonio (in questo caso quello figurato e artistico tra i due fratelli Safdie) in Diamanti grezzi sembra proprio che ci sia finito qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio e anche, forzando un po', qualcosa di blu e qualcosa di prestato.
Diamanti grezzi ha la capacità di trasmettere quella strana e piacevolissima sensazione di star guardando un film indubbiamente moderno ma allo stesso tempo forgiato con uno stampo dal profumo più classico del classico. Nuovo e vecchio insieme quindi, ma quasi di nascosto, senza sbandierare troppo nulla, anche perché Adam Sandler, qui un grande Adam Sandler, non è proprio l'attore che di primo acchito ti faccia pensare al cinema di un'altra epoca, e invece tutto sembra fondersi tra le epoche per poi sputar fuori la storia di un perdente dei giorni nostri radicato in una New York moderna che vede il suo centro nel quartiere dei diamanti a forte presenza ebraica.
Insieme a Sandler, protagonista anche un'opale che arriva dalla terra, dall'Africa, il centro di questo tratto di vita di Howard Ratner, il nostro protagonista, una pietra che a ben guardarla qualcosa di blu ce l'ha al suo interno. E poi, è innegabile, i fratelli Safdie qualcosa in prestito dai grandi del passato l'hanno preso, si ritorna a quella sensazione di riallaccio al cinema che fu, una sensazione che solo alcuni dei registi moderni (James Gray per dirne uno) sono capaci di evocare e far percepire senza forzature, in maniera del tutto naturale allo spettatore.
Howard Ratner (Adam Sandler) è proprietario di una gioielleria equivoca nel quartiere dei diamanti di New York, di origine ebraica l'uomo non conduce una vita troppo morigerata: affari illeciti, vizio del gioco, infedeltà coniugale, tutti vizi mitigati da una parlantina fluida capace di intontire chiunque, vizi esasperati però da una forza autodistruttiva che porta Howard, consapevolmente, a sbagliare, risbagliare e a sbagliare ancora, in un reiterarsi di comportamenti che non fanno altro che incasinargli la vita, una condizione della quale sembra non poter fare a meno.
Così dall'Africa il nostro gioielliere importa un'opale molto particolare che pensa di poter piazzare per un milione di euro. Nel frattempo suo cognato Arno (Eric Bogosan), spalleggiato da due pericolosi scagnozzi, continua a pressare per riavere indietro dei soldi prestati in passato a Howard il quale, anche nei momenti di disponibilità liquida, finisce per giocarseli invece di restituirli al creditore.
In uno dei suoi tanti magheggi Howard acconsente a prestare l'opale a Kevin Garnett (Kevin Garnett), star dell'NBA, in cambio del suo anello dei Celtics; l'opale è destinato a un'asta pubblica, è già impegnato, ma il cestista se ne innamora convinto che la pietra gli porti fortuna e non vorrebbe restituirla, nel frattempo il matrimonio di Howard si sfascia, anche il rapporto con l'amante Julia (Julia Fox) diventa teso quando Howard, durante una serata in un locale, crede che la donna l'abbia tradito con l'artista The Weeknd (The Weeknd) e finisce per aggredirlo. E poi ancora soldi, chiacchiere, scommesse, guai...
Diamanti grezzi sfoggia un ritmo indiavolato che non subisce interruzioni per tutta la durata del film, questo grazie alla bravura in regia dei Safdie ma soprattutto per merito di un Adam Sandler che offre una prova gigantesca, un torrente di parole in movimento, un continuo spostarsi, fare cose, vedere gente, intrallazzare, disperarsi, sbagliare, tentare di correre ai ripari, sbagliare ancora, scommettere e risbagliare, e anche quando Howard riesce a fare una cosa giusta la fa nel modo e nel momento sbagliato.
Quello dei Safdie è un film all'inseguimento di un protagonista fuori misura, che non sa quando è il momento di fermarsi, che non è capace di tirare il fiato mentre rischia di affondare, anche quando ha la consapevolezza che è giunto il momento di tirare il freno non riesce a farlo e trova il modo per andare avanti, rialzarsi, consapevole di farlo solo per poter ricadere (anche letteralmente) un'altra volta.
La sceneggiatura chiude il percorso con un finale perfetto, indovinato nella maniera più totale, alla fotografia Darius Khondji che ha lavorato con Refn, diverse volte con Allen e, non stupisce, proprio con James Gray a cui accennavamo prima. Prima dei titoli di coda si segue la mdp dei Safdie come fatto in apertura e finalmente si tira il fiato, lungo le due ore e un quarto di durata del film non l'avevamo fatto e non ce n'eravamo accorti.