Il secondo disco dei “Pumarosa” era atteso, anche se forse qui in Italia non erano in molti a desiderarlo con impazienza. Fatto abbastanza naturale, visto che quando, freschissimi dell’esordio “The Witch”, avrebbero dovuto esibirsi agli I-Days di Monza di due estati fa, assieme a Radiohead, James Blake e Michael Kiwanuka, la loro assenza dell’ultimo minuto non fu nemmeno annunciata e a parte il sottoscritto (e forse altri due o tre), non se ne accorse davvero nessuno. Riuscii a recuperarli qualche mese dopo, quando suonarono al Circolo Magnolia in una delle poche serate nevose degli ultimi anni. Risultato: 10 persone (dieci) presenti e prestazione fenomenale da parte della band, in un concerto a cui, dovessero sfondare anche dalle nostre parti, in molti giureranno di aver presenziato.
Non stiamo parlando di quattro ragazzini sfigati, comunque. Il loro primo disco aveva già ricevuto ovunque recensioni entusiastiche, i Depeche Mode se li erano portati in giro in alcune date del loro tour nelle arene (erano passati anche da noi ma purtroppo solo a Bologna e a Torino, non a Milano dove ero andato io) e Robert Smith in persona li aveva voluti a festeggiare il quarantesimo compleanno dei suoi Cure, la scorsa estate ad Hyde Park. Aggiungiamo che le prime date inglesi del loro imminente tour, sono andate sold out già da diversi mesi. E che ovviamente di concerti italiani programmati al momento non ne risulta manco mezzo.
Bene, ora che sono riuscito nuovamente a flagellarmi per il fatto che siamo e rimarremo in eterno un paese del Terzo Mondo anche in questo campo, passiamo a parlare di questo “Devastation”.
Per la verità, come spesso accade di questi tempi, la metà del disco è stata anticipata attraverso la pubblicazione dei singoli, quindi di novità, per chi si fosse mantenuto aggiornato, non ce ne sono molte. In realtà però, siamo davanti ad una mossa molto interessante, ad una sterzata sonora che, pur mantenendo intatte le caratteristiche principali del quartetto, ne muta gli elementi esterni in maniera piuttosto evidente. Le atmosfere cupe di scuola Wave sono rimaste, così pure una certa sensualità nell’incedere ritmico e nel cantato di Isabel Munoz-Newsome, sempre più a suo agio nel guidare la band e nel definirne l’impronta concettuale (i credits dei vari brani sono divisi tra tutti i membri ma quando ci parlai di persona mi dissero che di fatto era lei che scriveva). Il suono si è però inspessito, è divenuto meno ruvido e più avvolgente, tastiere e Synth hanno preso il posto delle chitarre nel costruire le linee principali. È evidente una maggiore vena Pop, che si traduce in brani più snelli e in alcuni casi orecchiabili, che a tratti lasciano trapelare la tentazione di costruire vere e proprie hit radiofoniche (in questo senso “Heaven” è perfetta ma anche “Lose Control”, la cui strofa suona un po’ come se gli U2 avessero continuato con la New Wave anche dopo il terzo disco). C’è stato inoltre un salto notevole a livello di costruzione dei brani, sia nella struttura che negli arrangiamenti, così che ogni episodio risulta cesellato alla perfezione, in ogni minimo dettaglio. Merito ovviamente anche della sapiente mano di John Congleton (St. Vincent e Swans, tra gli altri) che ha saputo convogliare il talento creativo dei britannici, donandogli una confezione fresca e moderna, tipica dei lavori che resistono al tempo. È in effetti questa una delle cifre più interessanti di “Devastation”: il suo essere evidentemente un lavoro ispirato ad un’epoca passata ma con un tiro ed una produzione assolutamente contemporanei, per nulla Old School. Da questo punto di vista, canzoni come “Fall Apart”, “See You”, “Virtue”, “Adam’s Song”, oltre ad essere splendide, rappresentano proprio l’esempio migliore di come la tradizione possa rimanere viva e presente senza dover per forza di cose reinventarsi. Accanto ad esse, convivono comunque episodi come “Factory” e la lunga “Lost into Her”, lente, sinuose, dall’incedere quasi Dark e ideale ponte con le sonorità di “The Witch”.
E c’è poi una prova esecutiva di primo livello da parte di tutta la band, con una Munoz-Newsome meravigliosa nel cantare la necessità di distruggersi in modo da poter rinascere, la capacità di saper cadere a pezzi per poter ripartire (da questo punto di vista, l’esperienza del tumore da cui è recentemente guarita sembra impregnare la maggior parte dei testi, densi di dolore e di immagini cupe ma anche di speranza); e poi, come ospite speciale al basso c’è un nome giusto un pelino importante come Justin Chancellor, a certificare il fatto che, se una band ottiene così tanti endorsement da parte di personaggi che contano, qualcosa di buono lo deve pur aver fatto.
“Devastation” è la prova della maturità dei Pumarosa, una band che tra pochi anni potrebbe davvero diventare molto ma molto grande. Noi per ora ci accontenteremmo di vederli dalle nostre parti: conoscendo la nostra tendenza a seguire le mode del momento, sono abbastanza fiducioso in una data o due nei prossimi mesi. Arriveremo in ritardo ma ci arriveremo anche noi…