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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
03/04/2023
Live Report
dEUS, 29/03/2023, Magazzini Generali, Milano
I dEUS, a cinque anni dal loro ultimo concerto milanese, tornano ai Magazzini Generali e i fan italiani hanno risposto entusiasti, riempiendo il locale. Identici a come ce li ricordavamo, i dEUS sono stati potenti, precisi ed emozionanti come li avremmo voluti rivedere, pronti anche a dare ampio spazio al nuovo album, e a ragione, visto che le nuove canzoni hanno tutte le carte in regola per stare accanto ai vecchi classici.

L’ultima volta che abbiamo visto i dEUS in Italia era il 2018 e c’era in ballo il tour di The Ideal Crash, probabilmente il loro punto più alto a livello artistico (i fan si dividono in merito, ma sul fatto che i primi tre dischi siano di un’altra categoria non c’è discussione). Quello che vidi al Circolo Magnolia, in una data decisamente memorabile, era un gruppo prevalentemente rivolto al passato: non solo perché intento a celebrare i propri fasti, ma soprattutto perché l’ultimo lavoro in studio, Following Sea, risaliva al 2012 e non pareva ce ne fossero altri all’orizzonte.

C’entravano gli impegni paralleli di Tom Barman, tra progetti musicali (Magnus e TaxiWars, con i quali ha avuto modo di esplorare mondi sonori come il Jazz e l’elettronica, che hanno bene male sempre fatto parte dell’identità dei dEUS, sebbene in forma più defilata) e i suoi interessi al di fuori dalla musica, tra fotografia e cinema: tra le altre cose, ha annunciato recentemente di aver terminato la sceneggiatura di un film, aiutato dall’amico scrittore Leonardo Colombati che, per strani incroci che solo la letteratura può produrre, lo ha inserito tra i personaggi principali del suo ultimo romanzo, Sinceramente non tuo.

Adesso però le cose sono cambiate perché i dEUS, dopo avere racimolato 13 anni di lontananza dal mondo discografico, sono tornati con del nuovo materiale.

 

How to Replace It, titolo dietro al quale si cela la necessità del gruppo di rinnovarsi rimanendo tuttavia fedele alla propria identità d’origine, ma anche le preoccupazioni per la situazione del pianeta, è un lavoro solido e credibile, niente di nuovo rispetto al passato recente, ma comunque in grado di mettere in fila una serie di canzoni ispirate, a dimostrazione di come Tom Barman sia ancora un autore di prima categoria (il cantante e chitarrista a questo giro ha lavorato da solo, contrariamente ai due album precedenti, che erano stati assemblati attraverso lunghe Jam ad organico completo).

E così, a cinque anni dal loro ultimo concerto milanese (in Italia ci erano forse ritornati l’anno successivo ma dovrei verificare) la band di Anversa appartiene nuovamente al presente. Certo, siamo nel campo delle “vecchie glorie” e il pubblico in larga parte attempato dei Magazzini Generali sta lì a dimostrarlo (alla fin fine Worst Case Scenario è del 1994) ma nulla vieta ad un gruppo che ha già scritto tutto quello per cui passerà alla storia, di potere ancora recitare una parte di rilievo nel panorama musicale attuale.

Di sicuro i fan italiani hanno risposto: il locale prescelto non è dei più grandi, ma è confortante notare come dall’inizio del set dei Dirk. l’affluenza sia già considerevole, con la venue che risulterà poi completamente imballata.

 

I Dirk. vengono da Ghent e hanno appena pubblicato Idiot Paradise, il loro album numero tre. Personalmente non li avevo mai sentiti nominare ma in Belgio devono essere piuttosto noti, a quanto ho capito. Mi ha divertito molto vedere uno dei due chitarristi indossare una maglietta dei Carnation, anche loro belgi, ma dediti ad un Death Metal vecchia scuola decisamente lontano dalle loro categorie di riferimento.

I Dirk. Suonano infatti un Indie Rock piuttosto canonico, matrice a metà tra Punk e Brit Pop ed influenze che vanno dai Pavement ai Pixies, nessuna concessione all’originalità ma tanta piacevolezza, declinata attraverso melodie accattivanti e, a tratti, strutture ritmiche più ricercate e riflessive.

Non cambieranno la storia della musica ma mi sento di promuoverli comunque a pieni voti, anche per un’attitudine simpatica e gioviale che riesce a conquistare i presenti con grande facilità.

 

L’inizio dei dEUS, all’insegna del nuovo disco con la title track, a metà tra groove percussivo e spoken word, e “Must Have Been Now”, certifica la “normalizzazione” di un gruppo che dall’uscita di Stef Kamil Carlens ha perso gran parte della propria spinta innovativa e del proprio eclettismo, per abbracciare un rock sempre sofisticato ma decisamente più lineare nelle intenzioni. Non è uno scandalo, è da anni che sono così e dopo tutto non sono mai scesi sotto la sufficienza, però è innegabile che i primi tre dischi siano di un’altra categoria, non è un caso che siano proprio quei pochi brani estratti da essi a suscitare i maggiori entusiasmi.

Mauro Pawlowski è tornato in formazione dopo alcuni anni di latitanza e la sua chitarra lavora in grande sintonia con le tastiere ed il violino di Klaas Janzoons, unico superstite assieme a Tom Barman della formazione originale e autentico pilastro attorno a cui ruotano i brani. Il frontman, che recita il ruolo del simpatico mattatore, esibendosi in un italiano che lo fa assomigliare in maniera divertente ad un personaggio de Il Padrino, conduce le danze ma non si prende la scena: canta la maggior parte delle parti vocali e suona la chitarra ritmica in molti pezzi, dando sempre l’impressione di essere sì il leader del gruppo, ma allo stesso tempo una sorta di “facilitatore” del libero esprimersi di tutti i componenti. È una band affiatata (questa line up è di fatto insieme dal 2004), col batterista Stéphane Misseghers (importante anche dietro il microfono) ed il bassista Alan Gevaert a fornire con le loro ritmiche sghembe la base di quella componente sperimentale che ancora sopravvive nel sound del gruppo.

 

È un concerto dei dEUS, dopo tutto. Identici a come ce li ricordavamo, potenti, precisi ed emozionanti come li avremmo voluti rivedere, danno parecchio spazio al nuovo album e fanno bene, perché queste canzoni hanno tutte le carte in regola per stare accanto ai vecchi classici. Sarà che non sono troppo attaccato all’aspetto nostalgico della musica, ma a mio parere alcuni dei momenti più riusciti del concerto hanno riguardato proprio gli estratti da How to Replace It: “1989”, in cui la storia personale di Barman (è l’anno in cui è morto suo padre) e la Storia si incontrano in un brano ricco di suggestioni e palpitante di magniloquenza. Oppure “Man of the House”, traccia robusta e aggressiva, una sorta di invettiva contro le derive delle nuove tecnologie, che avrebbero dovuto migliorare il mondo ma hanno prodotto effetti collaterali difficili da controllare. O l’accoppiata “Pirates”/Faux Bamboo”, lucidi esempi di una scrittura che, pur seguendo pattern invariati, è in grado ugualmente di rimanere su livelli eccelsi.

Va da sé che in una setlist altamente prevedibile, dove accanto all’ultimo album sono arrivati anche una manciata di ultra collaudati episodi del passato recente (“Girls Keep Drinking” e “Constant Now”, per citare le più celebri), l’entusiasmo maggiore lo hanno suscitato gli estratti dai primi dischi. Che alla fine sono sempre i soliti, ma se vengono proposti con questa furia e con questa passione è impossibile che stanchino: “W.C.S” con il suo andamento da Jazz sbilenco, “Instant Street”, unico estratto dal capolavoro The Ideal Crash, allungata notevolmente da un crescendo ossessivo che l’ha resa molto più satura e distorta; “Quatre Mains”, indubbiamente tra le loro cose più iconiche, coinvolgente con le sue ritmiche ondulate; e poi, ovviamente Fell Off the Floor Man”, anche questa suonata con grande potenza, quasi da assalto frontale.

 

A chiudere, dopo un concerto leggermente più breve dei precedenti nello stesso tour, è arrivata una meravigliosa “Bad Timing”, anche questa molto lunga, il violino in grande spolvero a dettarne il tema portante, ossessivo e psichedelico, il progressivo inspessirsi del tessuto ritmico ed un generale senso di meraviglia nel vederli suonare così fluidi e potenti.

Sono mancate “Hotellounge”, “Suds & Soda”, “Roses”, “Theme from Turnpike” ed altre grandi tracce che hanno reso la band di Anversa un must assoluto negli anni Novanta. Qualcuno le ha chieste con insistenza, qualcun altro sarà andato via deluso. Personalmente penso sia meglio così: lasciamo ad How to Replace It il compito di dirci chi sono oggi i dEUS e cerchiamo di godere dello stato di forma di un gruppo che senza dubbio un disco del genere non era obbligato a farlo.