L'aria è tesa in America, a Detroit.
Proteste sono già partite contro la violenza della polizia e la discriminazione razziale, e nella città della Ford, dove il lavoro è sottopagato, dove i ghetti sono cosa riconosciuta, l'aria è tesa.
La polizia aggrava la situazione, con retaggi, con controlli a campione. La goccia che fa traboccare il vaso, arriva di notte, arriva con un locale senza permessi, da chiudere, e la sua clientela da portare in centrale.
Scattano le proteste, i tumulti, le prime vetrine vengono infrante, e la rivolta ha inizio.
Una rivolta che riversa per le strade centinaia di persone stanche di sentirsi povere e oppresse, con, a fargli fronte, un vero e proprio esercito.
Sembra di essere in tempo di guerra, con il coprifuoco da rispettare, con poliziotti che danno vita a scene da far west, caccia all'uomo, proiettili vaganti, cecchini - o presunti tali - alle finestre.
Il peggio, però, deve ancora avvenire.
Il peggio avverrà la notte del 25 luglio all'Algiers Motel. Un motel da quattro soldi, da dove sembrano arrivare gli spari di un cecchino, dove in realtà stanno a far festa e riposare giovani di colore, e due ragazze bianche, disinibite il giusto.
Un quadro che la polizia non si aspetta, un quadro che non manda giù, e che fa aumentare la rabbia, la violenza, mentre cercano un colpevole, un cecchino, un'arma, con ogni mezzo possibile. Ogni mezzo, soprattutto i meno ortodossi, con violenze fisiche e psicologiche che non si argineranno, se non nel sangue.
Non siamo nella Detroit dei nostri giorni, o in quella degli anni '90.
No, siamo nella Detroit del 1967, tristemente simile a quella oggi, o degli anni '90, o a una qualunque città americana dove le persone di colore devono sottostare a leggi non scritte che le vede sempre sospettate, dove la polizia continua a colpire, e a sbagliare, mietendo vittime.
Siamo nel furore degli anni '60, si diceva, con la battaglia dei diritti civili combattuta ma non per questo finita, e siamo davanti a una pagina di storia che si ripeterà, ancora e ancora.
A raccontarla, una Kathryne Bigelow combattiva, che impugna ancora una volta la macchina da presa per raccontare una guerra dal suo interno.
Per farlo, segue la storia di 3 personaggi, un cantante dalla voce splendida, con il sogno del successo, un vigilante di colore che sa quello che sta succedendo, sa che si devono calmare i toni e sottomettersi, per quanto ingiusto, ai bianchi, e quei bianchi, quei poliziotti razzisti per cui un morto, lo sparare alle spalle per un semplice furto, non mette nessun tarlo nella coscienza.
Riuniti in quel motel assieme ad altri comprimari, si vivono ore di tormento, con lo stomaco stretto di fronte alla violenza, all'inaudito, all'ingiustizia compiuta da chi la giustizia dovrebbe rappresentarla.
La Bigleow, prima di arrivare a quel motel, compie una panoramica sugli eventi, sulle rivolte, sulle strade in tumulto e sulle vite che lì si uniranno. Ma è lì che ci si concentra, nonostante l'adrenalina e l'ansia che a percorrere quelle strade si prova.
E qui sta il limite del film: allungare la vicenda, prima e dopo, in un dopo che inevitabilmente non regge il confronto claustrofobico con quella notte, distanti da urla, da spari e dal sangue, ci si sofferma sul dramma della perdita, su lacrime e giudizi, ancora una volta ingiusti.
Si respira, vero, ma si respira troppo, e si perde la densità del prima, in una sceneggiatura che sbava nel pietismo, che eccede nel buonismo, con qualche dialogo di troppo, con qualche frase ad effetto che si poteva evitare. Cosa che da Mark Boal non ti aspetti.
Nel suo cuore, però, Detroit è un film di protesta, tristemente attuale che centra il bersaglio, facendosi politico, facendosi sentire. La Bigelow con le sue macchine da presa a mano, con il montaggio veloce e con primi piani che la violenza la fanno sentire tutta, sferra un altro pugno allo stomaco, a noi, pubblico, all'America e alla sua storia, che continua ancora e ancora a ripetersi.