Settantatre anni compiuti lo scorso febbraio, quasi mezzo secolo di carriera, trenta dischi alle spalle (di cui due con gli Hollywood Vampires), numerose comparsate come attore. Questi pochi numeri, snocciolati in fretta, sono la fotografia di un artista che ha scritto una pagina importante della storia, padre riconosciuto dello shock rock e nume tutelare di una schiera immensa di epigoni.Nonostante la veneranda età, Alice non si è ancora rassegnato a vestire i panni della leggenda nella sala cariatidi del museo del rock, e oggi mostra, come non capitava da tempo, un invidiabile stato di forma.
Già nel 2019, con l’Ep Breadcrumbs, Cooper aveva reso omaggio alla sua Detroit e alle sue radici. Con questo nuovo lavoro amplia il tema, e alla città e alla musica che l’ha cresciuto e che ha amato, dedica un intero album, quindici canzoni, un mix di brani originali e una manciata di cover, prodotte dal grande Bob Ezrin, colui che è stato determinante nella creazione del mito Cooper, a partire da Love It to Death (capolavoro dato 1971), e che da Welcome 2 My Nightmare (2011) è tornato al timone del bastimento.
Non solo. Alcuni musicisti nativi di Detroit, come il chitarrista degli MC5, Wayne Kramer, il batterista Johnny "Bee" Badanjek (la band di Mitch Ryder), Mark Farner dei Grand Funk e i Motor City Horns, si sono resi disponibili e, presso i Rust Belt Studios di Royal Oak, hanno dato il loro contributo alla scaletta, infondendo l'album con un ulteriore quid di autenticità.
Il disco prende il via con il ringhio rabbioso di Rock 'n' Roll (Lou Reed / The Velvet Underground) in una versione da far tremare le vene nei polsi, per poi proseguire con altre quattordici canzoni, alcune delle quali sorprendentemente cariche d’intensità. Cooper e la sua backing band suonano altrettanto cattivi e motivati in Drunk and In Love, Go Man Go, I Hate You e Social Debris, e sembra di essere tornati ai giorni d'oro di Schools Out di quattro decenni fa. La voce beffarda del cantante è in ottima forma, nonostante 73 anni trascorsi nelle trincee del rock and roll, e queste canzoni riescono a replicare con successo il tiro hard rock melodico, che ha reso immortali i suoi grandi classici degli anni '70.
Tuttavia, non tutte le ciambelle sono venute con il buco. Sul finale, lo spoken di Hanging On By The Thread (e i tastieroni decisamente fastidiosi) e la fin troppo prevedibile e semplicistica Shut Up and Rock, ad esempio, sono riempitivi che appesantiscono un album già piuttosto lungo.
Fortunatamente prima dell’epilogo, ci sono momenti di assoluto godimento e, soprattutto, quei riff graffianti, che rappresentano il marchio di fabbrica di Cooper: la grintosissima Hail Mary, una cover infuocata di Sister Anne degli MC5 e le atmosfere conturbanti e paludose di Wonderful World, sono numeri che faranno drizzare le antenne ai fan della prima ora. I quali possono rallegrarsi per questo nuovo Detroit Stories, probabilmente uno dei dischi di Cooper più centrati e gagliardi da anni a questa parte. Tornare a respirare l’aria di casa, come spesso accade, è stato un vero e proprio toccasana.