A memoria, questo è il primo disco di Paolo Benvegnù ad arrivare dopo che il normale tempo trascorso dal lavoro precedente è stato impiegato in progetti e collaborazioni di una certa consistenza, prima il tour con Marina Rei, poi il progetto “Racconti delle nebbie” assieme a Nicholas Ciuferri, infine assieme a Marco Parente, per una serie di appuntamenti al buio in vari luoghi d’Italia.
Ma è anche il primo disco dopo la trilogia che partiva da “Hermann” e finiva con “H3+”, il primo ad avere la copertina in bianco e nero, il primo (forse questo è il dato più significativo) che, a parte Luca Baldini al basso, a presentare una formazione completamente rinnovata dei musicisti che lo accompagnano in studio e poi anche dal vivo.
Al di là di questo, “Dell’odio e dell’innocenza”, sesto lavoro nella carriera solista dell’ex Scisma (sempre ammesso che serva ancora chiamarlo così visto che quella band, se escludiamo la fugace reunion di qualche anno fa, è ormai sparita da tempo) non varia molto i contenuti musicali e testuali. Benvegnù è sempre stato un autore fine, a tratti complesso, qualche volta persino cervellotico; la sua è una scrittura che gioca con le emozioni, che mira a commuovere ma soprattutto a far riflettere, con un’incessante meditazione sull’uomo, parafrasando a forza di esempi quella frase di Dostoevskij per cui il cuore è il campo di battaglia dell’eterna lotta tra Dio e l’uomo. Ha esplorato questi temi soprattutto nella trilogia di cui si è detto ma non ha certo smesso ora, visto che già dal titolo, questo nuovo disco fa capire che non verrà certo abbassato il tiro delle tematiche trattate.
Facile dunque sarebbe liquidare queste canzoni come “il solito Paolo Benvegnù” e da parecchi punti di vista non sarebbe un’affermazione sbagliata. Dopo così tanti anni ad esprimersi con un certo linguaggio, non è questo il momento in cui ha deciso di cambiare. Succede così che pezzi come “Pietre”, “Infinito 1”, “La soluzione” o ancora “Nelle stelle” non siano poi così tanto diverse da quanto da lui fatto in passato; la conseguenza è che, forse per la prima volta da quando lo seguiamo, siamo assaliti da una sensazione di déjà vu che impedisce di goderci appieno quello che abbiamo davanti.
Altrove ci sono però tentativi di imboccare strade nuove, dall’opener “La vita innocente”, dove si avvertono echi di Fossati, a “Non torneremo più”, che suona come una sorta di tributo all’ormai classica stagione della canzone italiana degli anni ’60; o ancora “Animali di superficie”, brano di grande impatto, dalla struttura lineare e con un ritornello che, immaginiamo, funzionerà molto bene dal vivo.
Per il resto, probabilmente il tratto distintivo di questo disco sta nella sua semplicità. Gabriele Berioli, la principale mente creativa, assieme a Paolo, di questo lavoro, ha vestito le nuove canzoni in maniera che risaltasse la melodia, che gli arrangiamenti fossero funzionali ad essa ed ha rinunciato a qualunque soluzione eccessivamente raffinata e sofisticata. Suo cugino Daniele alla batteria, Saverio Zacchei al trombone, Synth, vibrafono e piano elettrico, il già citato Luca Baldini al basso (e poi vanno menzionati Elisabetta Pasquale e Lorenzo Buzzigoli, che hanno arricchito “Nelle stelle”, rispettivamente con contrabbasso e voce e sintetizzatore) si sono attenuti alle indicazioni e hanno suonato il minimo indispensabile, col risultato che probabilmente questo è il lavoro più essenziale, dritto al punto, che il cantautore milanese abbia mai realizzato.
Stando così le cose, acquista valore la storia che ha raccontato alla vigilia dell’uscita: di lui che, di ritorno da un concerto con Marco Parente, si ritrova nella cassetta delle lettere un cd con incisi i demo di questi pezzi, inviati da un autore anonimo e che lui avrebbe deciso di farli suoi, registrandoli assieme ai ragazzi della band. Un po’ Manzoni, un po’ Cervantes, un po’ Borges, l’espediente del manoscritto ritrovato permette di creare una distanza dall’autore e di guardare il tutto da una prospettiva inedita, estraniandosi dal proprio lavoro nel tentativo di trovare un nuovo punto di vista.
È sempre Paolo Benvegnù che ha scritto questo disco ma allo stesso tempo non è lui, perché queste canzoni, scabre ed essenziali (perdonate la citazione) come la vita stessa, appartengono in qualche modo un po’ a tutti: la dimensione epica che aleggiava dalle parti di “Hermann” e “Earth Hotel” è stata forse abbandonata in favore del quotidiano ma non per questo c’è meno da lottare o, soprattutto, meno da amare. Si tratta di un lavoro intriso di rabbia (forse il più arrabbiato della sua carriera) ma anche di grande dolcezza, quello dove la meditazione sull’amore compie forse un passo avanti.
Non è dunque un caso se il tutto si conclude con “InfinitoAlessandroFiori”, registrazione casalinga, chitarra e voce, in presa diretta per catturare il momento, un lampo di ispirazione istantanea che ha prodotto una delle cose più belle della sua carriera. “Dimmi che sono anch’io nel tuo inferno”, ripete nel ritornello, l’ammissione sconvolgente (e molto poco di moda, in questi nostri tempi di egotismo esasperato) che amare l’altro vuol dire anche condividerne le storture, le debolezze, i peccati.
Non è il disco più bello e riuscito di Paolo Benvegnù ma è un ulteriore passo nel suo incessante cammino di ricerca, come ama definirlo lui. Per quanto ci riguarda, l’averlo trovato più ispirato e a fuoco in altre occasioni, non toglie il fatto che rimanga sempre uno degli artisti più profondi e consapevoli che abbiamo in Italia.