“Avrei sperato in qualcosa di un po’ più eccitante da questa pandemia. La Grande depressione dev’essere stata una gran rottura ma per lo meno si poteva saltare su un treno, bere alcol e suonare la chitarra; e magari anche uccidere qualcuno, da qualche parte lungo una ferrovia. Adesso non si può fare niente di niente. Non ci hanno neppure bombardato la casa!”.
Gareth Liddiard è ironico e provocatorio come al solito, nel parlare di un periodo che, da qualunque lato lo si voglia guardare, ha messo in difficoltà l’industria musicale forse più di ogni altro settore dell’economia. E dev’essere stata particolarmente dura per uno come lui, che racconta esaltato di un tour in Messico dove sono finiti in mezzo ad una guerra tra cartelli della droga e di una data in Turchia dove hanno rischiato di farsi sparare addosso. La sua compagna, di vita e musica, Fiona Kitschin, non è così sopra le righe, ma si capisce che se la sta godendo anche lei. Non potrebbe essere diversamente, ora che le cose si stanno lentamente rimettendo in moto e anche se il ritorno alla normalità appare lontano, una qualche luce in fondo al tunnel la si incomincia ad intravedere.
I Tropical Fuck Storm, del resto, sono stati particolarmente colpiti dalla pandemia: Gareth e Fiona abitano da tempo a Nagambien, ad un’ora e mezza da Melbourne, scelta divenuta obbligata per il costo proibitivo degli alloggi nella capitale del Victoria. Gli altri due membri, Erica Dunn (chitarra) e Lauren Hammer (batteria), sono invece rimasti in città e questo, durante il lockdown, ha impedito loro di vedersi per le prove, cosa che ha acuito il loro scoramento.
Deep States arriva a spazzare via tutto questo, testimonia una rinascita ed un ritrovato stato di forma per la band australiana, configurandosi sin dall’inizio come il loro lavoro più maturo.
Spesso accostati, a torto, ai concittadini e amici King Gizzard & The Lizard Wizard, i Tropical Fuck Storm condividono con loro l’attitudine cazzara ed una certa componente di eccentricità e follia nelle composizioni (nei dischi precedenti c’erano brani come “Who’s My Eugene”, dedicata a Eugene Landy, lo psichiatra di Brian Wilson, oppure “Maria 62” e “Maria 63”, incentrate sul personaggio immaginario di una medium nazista).
In realtà, a livello musicale, la psichedelia nel loro caso c’entra fino ad un certo punto, le sonorità variano dal Fuzz, al Blues, all’Afro Beat, senza dimenticare tutte quelle band dell’area Post Punk, che hanno fatto della sperimentazione e dell’eccletismo compositivo la loro impronta principale (Pere Ubu e Pop Group in particolare). Il tutto tenuto insieme da un suono più duro e a tratti Heavy, eredità della prima incarnazione del gruppo, i Drones, nel quale sia Liddiard che Kitschin hanno militato per 18 anni.
Le canzoni di Deep States sono state descritte come aventi la stessa logica dei sogni, “quando non sei sicuro di dove le cose vengano fuori o del perché stai provando quella particolare sensazione”. Rispetto a prima però c’è un po’ più di politica, ci sono brani più radicati nella contemporaneità: “GAFF”, uno dei singoli che ha anticipato l’album, contiene immagini che valgono come fotografia del presente, mentre l’opener “The Greatest Story Ever Told” sembra mettere in scena una ironica rappresentazione sui fatti del Campidoglio del gennaio 2021.
Anche “Suburbiopia”, da cui è stato tratto un video a tema fantascientifico, appare come una profezia non particolarmente rassicurante sullo stato futuro delle cose.
Per il resto, i Tropical Fuck Storm si confermano e fanno un bel passo avanti, con un disco che è una summa di quello che hanno sempre messo in campo, non presenta novità ma contiene nel complesso canzoni migliori. A partire dal già citato primo brano, sound a la Birthday Party, con esplosioni chitarristiche, cantato salmodiato e apocalittico della coppia Liddiard/Kitschin, quasi parodia distorta e allucinata della canzone dei Grateful Dead a cui hanno (forse) rubato il titolo. Bellissima anche la successiva “GAFF”, con le sue chitarre saltellanti a metà tra Pop Group e Black Country, New Road. O ancora, “Bumma Singer”, che ricorda da vicino il primo Nick Cave, “Reporting of a Failed Campaign”, cavalcata nervosa con una spruzzata di elettronica, “New Romeo Agent”, cantata dalla Kitschin, probabilmente il pezzo più immediato del lotto.
Un lavoro che non presenta cali di tensione o ispirazione e che ha il suo fulcro in “The Donkey”, una cupa elegia da psichedelia malata, che cresce poco a poco con voci intrecciate e fraseggi distorti e rumorosi, e in “Legal Ghost”, toccante e a tratti disperata, incentrata su una ex di Gareth Liddiard, una storia drammatica di droga e suicidio. Si tratta anche dell’unico brano non del tutto inedito: è una delle prime composizioni del musicista di Melbourne ed era già apparsa anni fa, in una raccolta di demo dei Drones.
A questo punto non resta che sperare di vederli presto dal vivo, anche se con le attuali circostanze credo che bisognerà attendere il tour del prossimo disco.