Dopo il successo di Libertines, Franz Ferdinand e Arctic Monkeys, il Regno Unito sta ancora attendendo una nuova ondata di band che possa riportare in auge quell'estetica rock arrogante e fiera di fregiarsi dello Union Jack. Ci sono i 1975, si potrebbe obiettare ma Matt Healy e soci, pur rifacendosi a modelli illustri e omaggiando anche loro l'album di famiglia, sono fin troppo Pop per i puristi, senza considerare il fatto che la loro credibilità artistica viene messa in dubbio da sempre da gran parte degli addetti ai lavori. Abbiamo avuto chi ci ha provato e sembrava per un momento poterci andare vicino ma oggi act come The Wombats o Circa Waves appaiono come promesse mancate e pure il buon debutto lo scorso anno degli Indoor Pets, non sembra aver sfondato come ci si aspettava.
Oggi le cose potrebbero andare diversamente. Quando gli Sports Team dicono a più riprese nelle interviste che “Siamo la miglior live band del pianeta” oppure “Siamo la più grande band del mondo” o ancora “Con questo disco potremmo portare a casa senza problemi un Mercury Prize o un paio di Brit Awards”, l'impressione è che non scherzino per niente. O meglio, lasciano credere al giornalista di turno che stiano scherzando, perché nessuno sano di mente potrebbe pensare che ancora nel 2020 esistano gruppi dall'ego così smisurato e dalla fiducia così illimitata nei propri mezzi, per lo meno non da quando un certo modo di vivere e concepire lo stardom nel campo della musica rock è stato totalmente smitizzato.
Invece pare proprio che facciano sul serio: Henry Young, Robb Knags, Alexandra Greenwood, Alex Rice, Oliver Dewdney e Benjamin Mack sono poco più che ventenni (Rice, il cantante, la cui voce ha una rassomiglianza non da poco con quella di Jarvis Cocker, ne ha addirittura 19) e hanno appena compiuto l'azione che all'epoca d'oro del rock era perfettamente inserita nei cliché: prendere casa tutti assieme, in modo da essere una famiglia, oltre che una band. Ne hanno affittata una a South London, una zona, dicono, che amano parecchio perché è vicina ai luoghi nevralgici della città e perché è piena di pub.
Del resto tutta la loro biografia ricorda quella dei grandi nomi: dagli inizi scapestrati in ambito scolastico (si formano sotto Natale e per questo decidono di chiamarsi Herod's Men and The One That Got Away, suonano un unico concerto che è un disastro e nei mesi successivi accolgono per i provini tutti coloro che sanno anche solo minimamente strimpellare un strumento), al primo singolo di successo (quella “Stanton” che, a detta loro, è stata composta durante la primissima sessione di prove), fino al mollare i loro lavori per dedicarsi a tempo pieno alla musica, nel momento in cui le cose hanno iniziato a decollare.
Due Ep in poco più di un anno: “Winter Nets” nel 2018, “Keep Walking” nel 2019, e una manciata di singoli sono bastati a creare un clima da Next Big Thing, con date sold out all'Electric Ballroom e al Forum di Kentish Town. Parliamo di un paio di migliaia di persone ma non è poco, per una band agli esordi e in una città dove accadono decine di cose imperdibili ogni giorno. Merito di un songwriting eccellente e di un'attitudine onesta e, nonostante le pose, profondamente Down To Earth, se consideriamo che sono in stretto contatto con i loro fan, con i quali condividono un gruppo whatsapp e con cui organizzano annuali gite a Margate, popolare località balneare a poco meno di due ore da casa loro.
È una community giovane, con la quale interagiscono alla maniera dei Clash degli esordi o a quella dei Libertines, un livello di fidelizzazione e di affiatamento che non sembrava più possibile in quest'epoca di mordi e fuggi e che ha fatto accorrere 500 persone ad un concerto di presentazione dell’album tenuto nel loro pub preferito, il The Nag's Head di Camberwell, annunciato sui Social appena 12 ore prima (qualcuno è arrivato addirittura dalla Scozia, hanno detto).
Poi sappiamo com’è andata: l'emergenza coronavirus ha fatto sì che anche loro, così come molti altri, posticipassero la pubblicazione ma ciò non toglie che questo sia sempre uno degli esordi più attesi dell'anno.
“Deep Down Happy” in realtà, più che un album vero e proprio è una raccolta di singoli, visto che su 12 brani ben 8 li conoscevamo già da tempo e alcuni provengono addirittura dai precedenti Ep. Hanno detto che è stata una decisione della casa discografica (escono per Universal, tra le altre cose), che a loro questi pezzi cominciano ad andare un po’ stretti e che hanno già scritto parecchia roba da inserire nel prossimo lavoro.
Sia come sia, ascoltate tutte insieme e con l'aggiunta delle 4 rimanenti, queste canzoni sono una vera e propria bomba. Mettete i Blur e i Pulp alle fondamenta, aggiungete copiosi strati di Parquet Courts per l'impatto e la ruvidità del sound, una buona dose di Wedding Present e Primitives per il modo di riscrivere il modello della perfetta Hit, una spruzzata di Pavement nell'attitudine cazzara e avrete la ricetta di un gruppo che sembra destinato a prendersi le arene.
Assomigliano a tutto quello che avete già sentito e non aggiungono neanche una virgola a quello che è già stato scritto alla voce “Brit Pop” ma il modo che hanno di comporre i pezzi e il tiro che danno loro è da non credere.
Partono in sordina, perché “Lander”, che appartiene al lotto dei brani ancora inediti, non è proprio efficacissima nelle vesti di opener ma ci mettono ben poco a rifarsi. Dalla successiva “Here It Comes Again” le danze si aprono ed è tutto un tripudio di episodi che paiono usciti ora da “Parklife”, ora da “Different Class”, ora da “George Best”. Il tutto, attenzione, senza mai correre il rischio di apparire dei meri scopiazzatori, bensì dei discepoli appassionati che hanno imparato la lezione dei maestri ma adesso provano a fare da soli. Testi pieni di caustica ironia a sfondo sociologico (leggere quello di “Here's The Thing” per farsi un'idea e già che ci siete ammirate il video esilarante col gruppo circondato da cheerleader), canzoni incentrate quasi tutte su up tempo irresistibili, un lavoro efficacissimo delle chitarre (la coppia Henry Young e Robb Knags, quest’ultimo responsabile di gran parte del songwriting) e melodie vocali da singalong immediato.
Non ci fosse stato il blocco dei concerti, li avremmo visti suonare parecchio, quest’estate, riprendendo l'abitudine che li vuole infaticabili macinatori di chilometri (120 concerti nell'ultimo anno, col disco registrato tra una data e l'altra, spesso senza dormire). Speriamo onestamente che questa pausa forzata non li penalizzi ma onestamente la bontà di questo materiale è tale da non ritenerlo possibile. Loro comunque hanno le idee chiare sul loro destino: Jake Hawkes di DORK, che per intervistarli ha passato un po’ di tempo con loro, ha raccontato che appesi alla parete del soggiorno della loro casa hanno due soli poster. Uno è degli Oasis, l'altro è il loro.