Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
14/10/2020
Lydia Loveless
Daughter
Il ritorno della songwriter dell'Ohio, dopo quattro anni tribolati, con un disco più introspettivo e sofferto

Sono passati ben quattro anni da Real (2016), ultimo album in studio della songwriter originaria di Columbus. Quattro anni difficili, in cui Lydia Loveless ha dovuto fare i conti con un divorzio, una brutta storia di moleste sessuali e il trasferimento dall’amato Ohio verso la Carolina del Nord, per inseguire il palpiti di un nuovo amore. Quattro anni che hanno lasciato ferite non ancora rimarginate e cicatrici, che hanno aggiunto al consueto approccio verace e diretto anche scorie di vulnerabilità, una diversa consapevolezza che ha mitigato la baldanza e la sfrontatezza che da sempre connotava le sue canzoni.

Lydia Loveless, oggi, è un’altra donna e quindi necessariamente un’altra artista. Si è ammorbidita, ha imboccato la strada dell’introspezione e, come nel precedente Real, ha iniziato a flirtare più decisamente con il pop, evitando certi graffi che avevano connotato i suoi primi lavori. Tuttavia, nonostante cambiamenti più che evidenti, il suo stile resta unico e immediatamente riconoscibile: quella voce da gatta imbronciata, sempre sul punto di tirare fuori gli artigli, le chitarre che rubano la scena al resto della strumentazione, e quell’innata capacità di scrivere canzoni dalle melodie a presa rapida, che colpiscono il centro del bersaglio al primo colpo, restano il piatto forte della casa.

Daughter, volendo ricorrere a un termine abusato, è il classico disco della maturità, quello che raggruma in dieci tracce tutto il meglio di un’artista che ha saputo costantemente rinnovarsi senza mai tradire se stessa. Un disco dall’impianto solido e dal suono omogeneo in cui splendide ballate si alternano a brani decisamente più pimpanti.

Apre Dead Writer ed è un tuffo al cuore, una delle migliori canzoni mai scritte dalla cantantessa dell’Ohio: mood malinconico, linea melodica in crescendo e la voce, quasi salmodiante, che si srotola dolente e appassionata su un tappeto sonoro intrecciato da tre chitarre perfettamente in equilibrio. Chitarre che corroborano il passo più rapido di Love Is Not Enough, brano dallo stile inconfondibile e amara riflessione sulla vita, in cui sono le persone peggiori quelle che riescono sempre a ottenere ciò che vogliono. Wringer, che racconta le ferite del suo divorzio, accelera ulteriormente il passo su un croccante riff di chitarra acustica, mentre Can’t Think, nonostante la centralità delle percussioni, è pervasa da tristezza arresa.

La Loveless si cimenta anche al pianoforte, nelle trame cupe di September, avvolta nella seconda parte dal violoncello e dal controcanto di Laura Jane Grace, mentre nella conclusiva Don’t Bother Mountain, Lydia azzarda con l’uso delle percussioni elettroniche e dei synth per contornare una canzone che parla delle speranze del suo nuovo amore.

Una scaletta dal profilo altissimo, in cui ogni canzone funziona alla meraviglia, dall’arpeggio scintillante che colora Whene You’re Gone alla meravigliosa title track, il miglior brano del disco, un omaggio al pop rock dei Fleetwood Mac, in cui la Loveless veste i panni di Stevie Nicks, regalando una prova vocale di grande intensità.

Pur in un contesto riconoscibilissimo, Daughter è un disco diverso da quanto ascoltato in precedenza, in cui è evidente che i traumi e i cambiamenti degli ultimi anni abbiano modificato la visione e la prospettiva della musicista, influendo con decisione sulle liriche e in qualche misura anche sulla struttura delle canzoni. Forse questo è l’inizio di un nuovo corso, che si era già intravisto in Real, o forse, più semplicemente, è un’opera dettata dalle circostanze, un lavoro estemporaneo e di transizione, una parentesi per poi tornare nuovamente all’impetuosa baldanza degli esordi. Comunque sia, Daughter resta un gran disco. Non lasciatevelo sfuggire.


TAGS: Daughter | loudd | lydialoveless | pop | recensione | review | rock | singersongwriter