Nel film “Accordi e Disaccordi“ di Woody Allen, Sean Penn interpreta il ruolo del chitarrista jazz, Emmet Ray, il quale, pur consapevole della propria bravura, è ossessionato dal fatto che, nonostante tutti gli sforzi prodotti, resterà sempre e comunque il secondo chitarrista più bravo al mondo. Il primo, vive dall’altra parte dell’oceano, si chiama Django Reinhardt, è belga di natali e gitano di origine.
Reinhardt passa la sua infanzia a girovagare per il mondo, finché nel 1918 la carovana di cui fa parte la sua famiglia si accampa nei pressi di Parigi. Qui, Django inizia a suonare un banjo regalatogli da un conoscente. Non sa né leggere né scrivere e tanto meno conosce le note. La sua formazione tecnica è esclusivamente visiva: impara tutto guardando suonare gli altri musicisti.
A dodici anni, è talmente bravo che viene scritturato per suonare nelle sale da ballo. Poco dopo, inizia a registrare i primi pezzi per la casa discografica Ideal Company insieme al fisarmonicista Jean Vaissade. E’ il 1928, e Django è prossimo a diventare una stella del jazz. Il destino beffardo, però, gli tende un’imboscata. Una sera, dopo aver suonato in un locale, rientra nella propria roulotte, piena di fiori finti che la moglie aveva preparato per venderli al mercato.
Django sente un rumore, pensa sia un topo e cerca di individuarlo reggendo in mano una candela. Basta un pezzo di stoppino incandescente caduto tra i fiori altamente infiammabili, e il caravan, in pochi secondi, è avvolto dalle fiamme. Django riesce a salvare sé stesso e la moglie, ma riporta gravissime ustioni alla mano sinistra e al fianco destro, che lo costringeranno in un letto di ospedale per diciotto mesi.
Carriera stroncata? Nemmeno per sogno. Django riprende la chitarra in mano e ricomincia a suonare, inventando un sistema di diteggiatura completamente nuovo, basato sulle sole due dita della mano sinistra che riusciva a controllare pienamente, l’indice e il medio (il quarto e il quinto dito si erano arricciati verso la palma per l’accorciamento subito dai tendini a seguito del calore). Nasce così un suono nuovo, mai ascoltato prima, che diventerà nel tempo il marchio di fabbrica del chitarrista. Il quale, nel corso di una vita tormentata dalle persecuzioni naziste, oltre che con il suo alter ego Stephane Grappelli, suonerà con leggendari jazzisti del calibro di Louis Armstrong, Duke Ellington, Benny Carter e Coleman Hawkins, prima di morire nel 1953, a soli 43 anni, a causa di una grave emorragia cerebrale.
Per comprendere quanto lo stile di Reinhart fosse innovativo, tanto da essere apprezzato anche fuori dai confini della musica jazz, voglio ricordare la genesi di una celeberrima canzone degli Almann Brothers Band, “Jessica”. E’ il 1973, e Dickie Betts, divenuto chitarrista solista della band dopo la morte di Duane Allman, è ossessionato dal talento di Reinhardt, di cui è un appassionatissimo fan.
Betts da giorni sta cercando di comporre una canzone che possa essere suonata con due sole dita, come faceva il grande Django. Nonostante gli sforzi, non riesce a trovare il bandolo della matassa. Poi, nella stanza dove sta provando entra a carponi la figlioletta Jessica, che gli sorride. L’ispirazione è folgorante e in meno di due ore Betts termina la canzone che, ventitre anni dopo, nel 1996, vincerà un Grammy come miglior brano strumentale. Un premio che verrà tributato alla memoria del più grande chitarrista jazz che la storia ricordi.