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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
03/06/2018
Bruce Springsteen
Darkness On The Edge Of Town
Darkness trova la propria gloria in uno strano equilibrio dal sapore cinematografico: un montaggio minuzioso e mai invadente che si armonizza alla perfezione con lunghi piani sequenza

In occasione del quarantennale disco, uscito il 2 giugno del 1978, ripubblichiamo la nostra recensione su Darkness On The Edge Of Town.

 

La genesi di Darkness On The Edge Of Town si colloca in un periodo tormentato della carriera di Bruce Springsteen: da un lato, il successo planetario di Born To Run, con le inevitabili pressioni della casa discografica per un seguito che fosse all’altezza; dall’altro, la causa civile fra Bruce e il  produttore e amico, Mike Appell, che stava mettendo seriamente a rischio la libertà professionale dell’artista.
Erano, inoltre, anni di grandi fermenti musicali che vedevano esplodere il movimento punk e quindi un modo diverso di pensare e suonare la musica.
Springsteen entra in sala di registrazione con circa settanta abbozzi di canzone, un coacervo di idee da sviluppare, il sacro fuoco del rock nel cuore e un orecchio ben aperto alle nuove tendenze musicali. Tanto entusiasmo, ma anche tanta confusione e tanta incertezza. L’obbiettivo, però, è da subito ben chiaro:
fare un disco che prenda le distanze da Born To Run, e che suoni, invece, più adulto, essenziale e, possibilmente svincolato da quel wall of sound che fece la fortuna del disco precedente.
Soprattutto, l’ambizione di Bruce è quella di realizzare una scaletta di canzoni che, pur mantenendo intatte la freschezza e l’immediatezza della gioventù, sappiano parlare il verbo della maturità, affrontare temi complessi e universali, quali il lavoro, il dolore, la sconfitta, i tradimenti, il vivere ai margini della città.
Non più solo fuga, dunque: la generazione dei nati per correre, quell’umanità sconfitta e in cerca di redenzione, si ferma a guardare e a riflettere.
C’è sempre una Thunder Road che aspetta là fuori, come un killer sotto il sole, come ultima speranza di riscatto; ma c’è anche l’improcrastinabile necessità di mettere un punto fermo, di parlare con schiettezza della propria esistenza e di onorare la propria terra, le proprie tradizioni, i propri affetti.
Springsteen sa cosa vuole, ma non sa come arrivarci.
Inizia così un lavoro febbrile, intenso, durissimo. Mesi a risuonare lo stesso brano, settimane passate a levigare il suono della batteria, scalette riformulate centinaia di volte, canzoni portate alla perfezione e poi scartate, per quell’eccesso di rigore e di autocensura incomprensibile ai più, ma motore propulsivo della creatività del Boss. Ne sono prova le ventuno canzoni partorite in quella sessione di registrazione, che saranno poi pubblicate, nel 2010, in un doppio cd dal titolo The Promise.
Una raccolta che avrebbe fatto la fortuna di qualunque artista, e che il Boss, invece, lasciò a decantare, salvo qualche sporadico caso, nei propri immensi archivi.
Canzoni del calibro di Because The Night (regalata a Patti Smith e da questa portata al successo) che venne esclusa da Darkness perché, nonostante fosse chiaro l’immenso valore (anche commerciale) del brano, si trattava di una canzone d’amore e quindi fuori contesto rispetto ai sofferti contenuti dell’album. Oppure, è il caso, ancor più eclatante, di The Promise, canzone adorata dai fans e uno dei vertici compositivi del Boss, non inserita nel disco perché nessuna delle registrazioni effettuate venne considerata all’altezza. Esclusioni pesanti, dunque, che la dicono lunga sull’onestà intellettuale di Springsteen, tanto manichea da subordinare il facile successo commerciale (che, a ogni modo, arrivò) all’ortodossia di un’arte incapace, almeno in quel periodo storico, di scendere a compromessi. E' per questo che Darkness suona così essenziale e compatto, come fosse costruito su un suono privo di sfumature, quasi monocromatico che, lungi da rivelarsi un limite, diviene invece il vero punto di forza del disco. Se da un lato, dunque, il sound è cupo e omogeneo, ed è figlio di una meticolosa produzione in studio (c’è anche lo zampino di Jon Landau), dall’altro, però, le canzoni non smettono di trasmettere energia e vitalità, suggerendo comunque, una sensazione di immediatezza e di presa diretta. Prova ne è una scaletta che inchioda l’ascoltatore in un sali e scendi di palpiti, tra sofferte ballate (Something In The Night, FactoryRacing In The Street) ed esplosioni di un rock che come sempre corre a perdifiato lungo le highways (Badlands e Prove It All Night).
Mentre Born To Run diventa un disco eterno perché vive di epica e di furore, e soprattutto procede in modo convulso per accecanti esplosioni di immagini, Darkness trova invece la propria gloria in uno strano equilibrio dal sapore cinematografico: un montaggio minuzioso e mai invadente che si armonizza alla perfezione con lunghi piani sequenza; una fotografia in bianco e nero, che descrive i demoni personali dei protagonisti delle canzoni, senza enfatizzare; una sceneggiatura scarna e dolente, a cui manca l’happy ending, ma che trasuda di consapevolezza e orgoglio. Uno Springsteen, dunque, artista a tutto tondo, capace di narrare l’America, la tradizione, il risveglio dal fallimento del sogno americano, con un verbo trasversale che coniuga letteratura, rock e cinema; ma anche, e soprattutto, uno Springsteen che sveste i panni della rockstar di Born To Run, per farsi voce e anima della gente comune, crooner della sconfitta, interlocutore dei propri fans e mai profeta di verità.
Non è un caso che Darkness sia il disco più amato dai blood brothers (così si chiamano fra loro i fans del Boss) e che da questo momento in avanti Springsteen stringa col proprio pubblico un legame da connotati quasi religiosi (cercate il documentario di Baillie Walsh, intitolato Springsteen & I e pubblicato nel 2013).
Le canzoni di Darkness On The Edge Of Town annullano, dunque, le distanze tra rockstar e gente comune, creando una sorta di immedesimazione di ruoli che non ha mai avuto eguali nello star system.
C’è un breve aneddoto che è esplicativo di quanto appena scritto.
Il fotografo incaricato di fare gli scatti per la copertina di Darkness, racconta di aver chiesto a Springsteen di presentarsi sul set fotografico con tutto il suo guardaroba, in modo da poter avere diverse opzioni per scegliere l’abito più adatto alla bisogna. Bruce si presentò con un sacchetto del supermarket contenente qualche camicia e un paio di magliette. Aveva venduto milioni di dischi ma era rimasto il ragazzo del New Jersey degli esordi.
Oltre alla musica, è questa semplicità a essere il vero motore trainante di un successo che dura ormai da quarant’anni. Accorciare le distanze e donarsi agli altri come un amico, un fratello, uno di casa.
Tutto ciò che Darkness rappresenta alla perfezione: un rock colloquiale e sincero, che parla di cose che conosci e che senti, raccontate da uno che ha il tuo medesimo Dna e la stessa sconfitta nel cuore.