Ho sempre pensato, e lo penso tuttora, che le tribute band siano la rovina della musica (o forse, all’opposto, rappresentano piuttosto il prodotto di una rovina già in atto). Chi preferisce passare una serata ad ascoltare musicisti sconosciuti, bravi o non bravi, suonare i soliti pezzi dei soliti gruppi, piuttosto che assistere al live di una qualsiasi realtà contemporanea, non ha mai riscosso la mia simpatia. Per carità, ognuno fa ciò che vuole del proprio tempo, ma ci sono anche delle situazioni che occorre guardare in faccia e definire per quel che sono: se in un paese proliferano le cover band, se l’unica occasione per un gruppo emergente di esibirsi dal vivo è suonare le canzoni di altri, vuol dire semplicemente che quel paese non è interessato davvero alla musica o, nella migliore delle ipotesi, la vede come un mero intrattenimento, come un piacevole sottofondo per chiacchierare davanti a una birra.
Eppure anche la cosiddetta “Popular Music”, alla pari di generi più “nobili” (almeno secondo i nostri politici) come il Jazz, il Blues o l’intoccabile “musica classica” (definizione che, se ci pensate, fa rabbrividire, come se tra Haydn, Mahler e Sostakovic, giusto per fare tre nomi a caso, non ci fosse nessuna differenza) ha nel frattempo raggiunto un’età in cui si subisce per forza di cose un processo di storicizzazione.
Tanti gruppi e artisti solisti che hanno contribuito a plasmare i diversi generi e a definirne i canoni sono scomparsi, o perché fisicamente passati a miglior vita (chiunque abbia come idoli musicali solo gente over 60 non se l’è passata benissimo negli ultimi anni) o perché hanno deciso di interrompere i progetti di maggior successo e passare ad altro.
Sta di fatto che, mai come oggi, sembra siamo alla vigilia dell’avverarsi di quella famosa profezia di Gene Simmons per cui, in futuro, il repertorio dei più famosi gruppi rock sarebbe diventato standard e sarebbe portato in giro da una molteplicità di musicisti diversi, esattamente come da tempo accade con i grandi compositori definiti appunto “classici”.
Ecco, messa giù così ha un senso. Act come Beatles, Led Zeppelin, Pink Floyd, Genesis, Police e tanti altri sono ormai stati consegnati alla storia, ma non è effettivamente così assurdo che rimanga la voglia di ascoltarne dal vivo le canzoni: dopotutto, se nessuno bollerebbe mai come nostalgico un appassionato che si rechi ad ascoltare una sinfonia di Beethoven, la stessa cosa potrebbe accadere per chi decidesse di investire i propri soldi in una riproposizione di The Lamb Lies On Broadway.
Tutto questo per dire che, se limitate a nomi che non è più possibile vedere dal vivo, anche le cover band possono rivestire un’utile funzione.
I Grateful Dead, come noto, non esistono più dal 1995, quando l’improvvisa morte di Jerry Garcia pose fine all’avventura del gruppo. Nel 2015 c’è stata l’estemporanea reunion per il cinquantesimo anniversario, una serie di concerti con Trey Anastasio dei Phish come membro aggiunto, immortalata nel dvd/Bluray Fare Thee Well.
Lo stesso anno sono poi nati i Dead & Company, un “supergruppo” con i membri originali Bob Weir, Bill Kreutzmann e Mickey Hart, assieme ad Oteil Burbridge, Jeff Chimenti e con John Mayer nel ruolo che fu di Garcia.
È un progetto totalmente ancorato al passato (nonostante abbiano più volte dichiarato di voler pubblicare del materiale nuovo in futuro) ma musicalmente credibile, che gira le arene degli Stati Uniti una o due volte l’anno, riempiendole ogni volta di un numero impressionante di fan (a noi potrà sembrare assurdo, ma i Deadhead oltreoceano sono ancora un fenomeno consistente).
Inutile dire che, potendo scegliere, sarebbe molto meglio andare a sentire loro, visto che, oltre ad un artista importante come Mayer, una metà dei Dead originali ci sono ancora. Ma i Dead & Company, inutile illudersi, in Europa non verranno mai, figurarsi poi in Italia.
(Ultim’ora: mentre sto scrivendo queste righe hanno pure annunciato che quello dell’estate 2023 sarà il loro ultimo tour, quindi mi sa che su questo fronte una porta si è chiusa.)
Ed eccoci dunque arrivati alla Dark Star Orchestra. La band di Chicago è in giro dal 1997 ed è nata (lo dice il nome stesso) con l’esplicito intento di omaggiare la musica dei Dead, non senza un certo intento filologico: negli anni ha infatti riprodotto con grande cura diversi spettacoli della band, ricreandoli nei minimi particolari, con la stessa identica setlist suonata all’epoca, affiancandoli a concerti dove il repertorio viene invece eseguito liberamente, con scalette compilate dal gruppo.
L’occasione di stasera è di quelle importanti: si festeggia il cinquantesimo anniversario del primo tour europeo per Garcia e soci, da cui venne ricavato il live Europe ’72 recentemente ristampato per la ricorrenza, unitamente ad un box in vinile con tutti e quattro i concerti al Lyceum di Londra.
Quel tour non toccò l’Italia (i Grateful Dead, nei trent’anni della loro storia, non suonarono mai nel nostro paese) ed è dunque un bel regalo quello che la Barley Arts ci ha fatto, portando la Dark Star Orchestra dalle nostre parti. Sarà anche solo una cover band, ma l’idea di ascoltare per tre ore quelle canzoni suonate come Dio comanda, è una tentazione a cui ho ceduto più che volentieri.
Quando arrivo davanti al Santeria, la scena che mi si presenta davanti agli occhi è a dir poco surreale: il posto è invaso da nugoli di Deadhead, età media decisamente elevata, anche se ce ne sono diversi che sembrano attestarsi sui cinquant’anni, tutti con indosso la maglietta tie dye d’ordinanza. L’atmosfera è festosa e ci sono tutti i cliché del repertorio: dall’anziano che vende memorabilia, a quelli che tengono il braccio in aria a significare che stanno cercando qualcuno che gli regali un biglietto, a quelli con zainone in spalla, come se fossero in pausa da un non ben precisato giro del mondo a piedi; su tutto e tutti aleggia poi l’aroma inconfondibile della marijuana, anche se a giudicare da quello che poi succederà dentro, sospetto vi fossero pure droghe di ben altro tipo in circolazione.
Più che a Milano nel 2022, nel bel mezzo della Fashion Week, sembrava di essere a San Francisco, in un momento imprecisato degli anni ’70. Altro dato di una certa importanza: gli italiani sono pochissimi, ovunque ci si giri si sente parlare inglese. Era abbastanza scontato, ma devo dire che mi aspettavo qualcosina di più da parte del pubblico nostrano: dopotutto, come mi ha fatto notare un collega di redazione, la rivista musicale più venduta nel nostro paese rimane sempre il Buscadero.
Anche questa sera, come in tutte le altre date del tour, sono previsti due set con intervallo nel mezzo, motivo per cui la time schedule è decisamente stretta. Alle 19.30, orario inconcepibile per un concerto italiano, la band prende posto on stage e, proprio come gli originali, cincischia un po’ con amplificatori e strumenti, prima di attaccare col primo pezzo.
Il via alle danze lo dà un’energica versione di “Bertha”, una delle opener preferite durante quella fase del gruppo, subito seguita da “Me and my Uncle”, altro classico dei primi anni ’70. I suoni sono al limite della perfezione, in tutto e per tutto fedeli a quelli che i Grateful Dead avevano in quel periodo, e la band rende decisamente bene. Bisogna in effetti considerare che non si tratta di una semplice cover band da pub, bensì di musicisti professionisti con un lungo background alle spalle, che hanno anche collaborato a vario titolo coi vari Phil Lesh, Robert Hunter, Donna Goodchaux.
Sul palco sono in cinque, i ruoli rigorosamente divisi: Jeff Mattson è Jerry Garcia, copre quelle che furono le sue parti vocali e la sua chitarra è il fulcro principale delle Jam che si propagano dai vari brani. Rob Eaton fa quello che faceva Bob Weir, chitarra ritmica e voce solista laddove gli compete, e si nota anche come i timbri vocali di entrambi siano decisamente simili agli originali. Poi c’è Skip Vangelas, bassista eccellente, lo stile fantasioso di cui è in possesso rende il suo strumento uno dei centri propulsori del concerto, divaga spesso dalla mera funzione ritmica andando a ricamare splendidi fraseggi di rinforzo al lavoro chitarristico. Rob Barraco alle tastiere è un’altra solida garanzia, riempie tantissimo le strutture armoniche e si occupa anche di cantare quei brani che originariamente furono di Pigpen (che nel ’72 era all’ultimo tour con la band e che a causa delle sue già pessime condizioni, suonò molto poco). Sotto utilizzata è invece Lisa Mackey, l’altro volto di Pigpen, ma questa sera la sua armonica comparirà in appena due brani, le blueseggianti “Next Time You See Me” e “Big Boss Man”. A completare una line up di primissimo livello c’è poi Dino English, l’unico dei due batteristi presenti in questo tour europeo. Il suo drumming minimale e implacabile è forse la cosa migliore dell’intero show, mai in primo piano ma vitale nel fornire ai vari brani il tiro che meritano.
Il primo set dura quasi due ore (molto di più del previsto, tanto che si sfora di una mezz’ora abbondante sulla tabella di marcia) e come da copione contiene tracce più brevi e dirette. Il repertorio è ovviamente quello di quel famoso tour di cinquant’anni fa, quindi è inutile aspettarsi qualcosa di posteriore. I Dead erano però già all’apice della grandezza in quel periodo, di conseguenza ascoltiamo un sacco di cose stupende: la rockeggiante “Mr. Charlie”, la classicissima accoppiata “China Cat Sunflower/I Know Your Rider”, una intensa “Black Throated Wind” con Rob Eaton sugli scudi, brani senza tempo come “Loser” e “He’s Gone”, entrambi resi con la massima fedeltà ed entrambi tra gli highlight assoluti della serata.
Nel finale non manca una “Playing in the Band” particolarmente psichedelica, esattamente come la suonavano in quegli anni, ma prima della pausa arrivano altri cavalli di battaglia come “Jack Straw” e “Tennessee Jed”, col finale affidato ad una indiavolata e spensierata versione di “Casey Jones”, il suo crescendo di intensità a fare impazzire il pubblico.
Già, il pubblico. L’ascolto di decine e decine di concerti dei Grateful Dead non mi aveva preparato all’atmosfera che si respirava sotto il palco: le prime file gremite di hippy in estasi, che ballavano roteando su se stessi con le braccia in aria, completamente presi dal ritmo della musica, e probabilmente anche alterati da sostanze non meglio specificate. A tratti straniante, il clima della serata è stato qualcosa di assolutamente unico, mai sperimentato in nessuno dei concerti a cui ho assistito (e vi assicuro che ne ho visti parecchi). Ecco, questo piccolo scampolo mi ha chiarito che i Grateful Dead, prima ancora che per la musica (hanno comunque scritto canzoni di livello assoluto, è bene non sottovalutare questo aspetto) sono stati unici per la comunità di fan che hanno saputo creare, per la quale la band era senza dubbio un oggetto di venerazione, ma anche l’incarnazione più visibile di quei valori che la controcultura del tempo puntava ad affermare.
Durante la pausa di una mezz’ora abbondante il locale si svuota e tutti si riversano all’esterno, per fumare e fare quattro chiacchiere. Veniamo prontamente richiamati dalle note di “Truckin’”, uno dei momenti topici della prima fase del gruppo, e anche il modo migliore per cominciare il secondo set.
Come era lecito aspettarsi, questa è la parte più tipicamente psichedelica, quella dove le Jam si fanno più lunghe, spostando il fulcro dalle melodie alla mera improvvisazione. È un breve solo di English che apre per una ipnotica “The Other One”, divisa in due parti con la “Me and Bobby McGee” di Janis Joplin nel mezzo, anch’essa con una parte di chitarra solista niente male: non sarà Jerry Garcia, ma Jeff Mattson possiede comunque un tocco tutto suo ed è un piacere ascoltarlo.
L’atmosfera si fa contemplativa con una solenne “Wharf Rat”, splendida esecuzione da far rimanere a bocca aperta. Poi parentesi rock con “Beat It Down the Line” e via con una meravigliosa “The Stranger (Two Souls in Communion”), uno dei brani più belli mai scritti da Pigpen, interpretata benissimo da Rob Barraco. È bello sentirla questa sera, anche perché gli stessi Grateful Dead, dopo la scomparsa del musicista nel 1973, non la suonarono più.
Si rimane sulle ballate e se possibile si sale di intensità, “Ramble On Rose” e “Sing Me Back Home” sono davvero magnifiche e valorizzano soprattutto l’impasto vocale, un altro aspetto che la Dark Star Orchestra sa rendere alla perfezione.
Non c’è più molto tempo e per l’ultimo atto si torna a premere sull’acceleratore: “Sugar Magnolia” provoca una bella baraonda, ritmi altissimi e chitarre fragorose, per un attimo si ha come l’illusione di trovarsi veramente nella bolgia del 1972. Poi ecco “Not Fade Away” con il suo andamento cadenzato, in mezzo una “Goin’ Down the Road Feeling Bad” che suona veramente liberatoria.
I nostri si congedano dal pubblico in visibilio, con Rob Barraco che rende noto che quella a cui abbiamo assistito è stata la ricostruzione, brano per brano, del concerto del 10 ottobre 1972 ad Amsterdam. Proprio per questo non ci saranno bis, nonostante gli applausi e le richieste non si plachino neppure dopo l’accensione delle luci.
Concerto bellissimo, tre ore e mezza ad alta intensità, nessun calo, esecuzioni praticamente perfette. Le tribute band saranno anche la rovina della musica ma l’impressione di questa sera è di avere assistito all’interpretazione migliore possibile di un repertorio che è ormai stato consegnato alla storia. Forse bisognerebbe avere il coraggio di dirlo: così come si va a sentire le orchestre suonare Mozart e Beethoven, si può assistere allo spettacolo della Dark Star Orchestra che rifà i Grateful Dead senza bisogno di sentirsi dei passatisti.