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REVIEWSLE RECENSIONI
24/04/2024
Pearl Jam
Dark Matter
I Pearl Jam sono tra le band più amate, ma nel corso del tempo i nuovi album sono divenuti artisticamente sempre più irrilevanti. Ora arriviamo a "Dark Matter" e anche i fan iniziano a mollare il colpo. Com'è l'ultimo capitolo? Ce lo racconta uno dei loro più fedeli seguaci.

Di base le cose stanno così. I primi quattro dischi dei Pearl Jam (Ten, Vs, Vitalogy, No Code, dal 1991 al 1996) hanno avuto una indubbia rilevanza storica e hanno contribuito a dire qualche cosa di nuovo nel mondo della musica rock, più nello specifico “alternativa”.

I successivi cinque (Yield, Binaural, Riot Act, Pearl Jam, Backspacer, quindi il periodo dal 1998 al 2010) non hanno aggiunto nulla a quanto già fatto, possono essere tranquillamente definiti “for fans only”, ma sono lavori qualitativamente egregi (chi più chi meno, qui di solito entrano in gioco i gusti, anche se forse bisognerebbe ammettere che Backspacer è piaciuto solo a me), che fotografano la trasformazione, fisiologicamente necessaria e perfettamente riuscita, da icona Grunge a grande rock band.

Da ultimo, abbiamo i dischi pubblicati tra 2014 e 2024: che sono solo tre (la dilatazione dei tempi dovrebbe far riflettere non poco, tra l’altro) e che possono essere attribuiti alla fase del declino, quella in cui il gruppo di Seattle ha cominciato a deludere anche gli amanti più fedeli.

 

Ora, io i Pearl Jam li ho amati tantissimo, sono tra gli artisti che ho visto più volte dal vivo in vita mia (diverse volte anche all’estero), li ho più volte difesi davanti ad amici che li consideravano ormai del tutto irrilevanti già quindici anni fa. Eppure, adesso mollo il colpo anch’io. Io che, oltretutto, porto strenuamente avanti la tesi per cui per una band non è quasi mai una gran cosa durare a lungo, perché i periodi di ispirazione durano poco ed il rischio di infarcire la propria discografia di capitoli trascurabili diventa sempre più alto col passare del tempo.

Dei Pearl Jam ho sempre detto e scritto che l’essere sopravvissuti, unici fra tutti i grossi nomi, all’era Grunge, riuscendo ad affrancarsi da quell’etichetta, a fare altro e a rimanere tutto sommato credibili, sia stato uno dei principali punti a loro favore. Adesso però anche basta.

Per carità, non devono certo smettere perché lo chiedo io, e neppure è così scontato che si rendano conto di essere divenuti ormai completamente irrilevanti. Hanno voglia di suonare, si divertono ancora abbastanza in studio di registrazione e, dato per nulla trascurabile, c’è ancora una gigantesca domanda di pubblico per vederli in azione (si veda la vicenda del prossimo tour estivo, completamente sold out nonostante i biglietti siano i più cari di sempre nella storia del gruppo). Di conseguenza, ragioni per smettere, almeno sulla carta, non ne avrebbero.

 

Eppure. Lightning Bolt lo salvarono giusto i fan più oltranzisti e continuo a ritenere che sia il punto più basso dell’intera discografia; eppure un brano come “Sirens”, per quanto fin troppo “leggero”, funzionava parecchio. Stessa cosa per Gigaton, che aveva una qualità media leggermente più alta, e che conteneva quella “Dance of the Clairvoyants” che rappresentò un parziale tentativo di svoltare e dire qualche cosa di nuovo, decisamente apprezzabile dopo più di trent’anni di carriera.

Dark Matter arriva quattro anni dopo e capirete dunque come, dopo due tonfi piuttosto rovinosi, le premesse non fossero granché buone.

Qualcuno forse si era illuso alla notizia che dietro la consolle era stato chiamato Andrew Watt, forse nella speranza che sarebbe riuscito a svecchiare e a rendere più interessante un sound francamente obsoleto. Speranza vana anche qui: il gruppo suona esattamente uguale a se stesso, grezzo e potente, per carità, con chitarre ruvide senza nessuna concessione ai vestiti patinati di un certo rock contemporaneo, ma per ottenere un risultato del genere, così privo di sussulti, senza sorprese, bastavano anche loro cinque da soli, non c’era bisogno di coinvolgere un esterno così importante.

 

Il problema principale di Dark Matter, comunque, sono le canzoni. Vi ho già detto come la penso: è da anni che il gruppo ha finito le idee, è da anni che ripete il solito discorso trito e vi assicuro che io sono tra i meno catastrofici (la maggior parte si ferma a Yield, per non parlare dei fenomeni da baraccone per cui “band finita dopo Versus”).

A sto giro, però, c’è veramente poco da dire: questo è un disco che si muove all’interno di un’imbarazzante mediocrità di fondo, con una band che non riesce più a scrivere anche solo una canzone che faccia alzare dalla sedia, oltretutto con un cantante che ormai non ce la fa più. E attenzione che qui di linee vocali impegnative non ce ne sono: i nostri sono stati fin troppo furbi e hanno confezionato parti che il buon Eddie Vedder potesse cantare senza troppi sforzi. La sua prestazione risulta tuttavia deludente; e fare fatica in studio, con la possibilità di fare non so quante take, non è esattamente un bel segno.

Qui si potrebbe aprire un altro capitolo, evidenziare come negli ultimi anni il quintetto di Seattle sia diventato una sorta di Eddie Vedder and His Pearl Jam, con conseguenze niente affatto positive sull’economia globale della band; ma non è questo il momento, soprattutto perché non credo che qui la visibilità eccessiva del frontman conti qualcosa: le canzoni sono semplicemente brutte, hanno finito la benzina e difficilmente saranno in grado di trovarne altra strada facendo.

 

La partenza, in verità, non è neppure così male: “Scared of Fear” (che si apre con il suono di una palla da biliardo colpita dalla stecca, Eddie ci ha fatto sapere che è preso da una partita tra lui e Sean Penn) ha un ritmo a la “Evacuation” ed è in generale piuttosto accattivante, con un ritornello che funziona ed un break centrale in crescendo che comunica un certo senso di urgenza ed è forse la cosa migliore di tutto il disco. Sensazioni positive trasmette anche “React, Respond”, che segue la formula delle cose più tirate, quasi Punk, presenti nel repertorio della band a partire da “Spin the Black Circle”; ovviamente non siamo a quei livelli ma c’è un bel fraseggio di chitarra e il refrain, ancora una volta, alza il ritmo e raggiunge la sufficienza piena. Un altro discreto motivo di soddisfazione lo troviamo in “Won’t Tell”, semi acustica, malinconica e allo stesso tempo ariosa, che richiama un po’ gli episodi più avventurosi di Pearl Jam (“Severed Hand” o “Marker in the Sand”) e che sembra godere di un buon livello di ispirazione, seppur ancora una volta la parte vocale non sia all’altezza della fama di chi la esegue.

Il resto, mi dispiace, è poca roba. La title track (che è in giro da mesi, quindi tempo per ricrederci ne abbiamo avuto eccome) è un mid tempo scipito, che avrebbe anche degli effetti interessanti sulla chitarra di Stone Gossard ma che in generale non va da nessuna parte; pezzo più brutto mai scritto in carriera? Non voglio cimentarmi in queste classifiche ma potremmo candidarlo senza troppi problemi.

Rimando in tema di singoli, “Running” è semplicemente una “Olè” che ce l’ha fatta (a finire su un disco) ma i motivi per gioire sono ben pochi: sembra scritta da una band di ragazzini che hanno iniziato a suonare la settimana prima. “Wretched” ha fatto gridare al miracolo più di un membro del fan club italiano e ragazzi, vorrei avere il vostro candore e la vostra capacità di emozionarsi con poco: è una ballata un po’ ritmata, piuttosto americana nella scrittura (qualcuno ne ha lamentato la somiglianza con il Tom Petty di Full Moon Fever e io rispondo: magari fosse così!), uno di quei pezzi che avranno scritto sì e no cinquanta volte, sempre con esiti migliori. Ripeto: vorrei tanto entusiasmarmi anch’io ma al secondo ritornello ho rischiato di addormentarmi.

 

Ecco, sarebbe anche il caso di far notare come, ancora una volta, il produttore di turno (su Gigaton c’era Josh Evans, che era giovane e inesperto, ma adesso davvero non ci sono scusanti) non sia riuscito a richiamare i nostri sul fatto che ripetere per due minuti di fila il solito giro, allungando a dismisura i finali e sfiorando più volte i sei minuti a pezzo, non è esattamente una grande idea. Una buona parte di questi undici brani, infatti, ha una durata sproporzionata rispetto a quanto succede all’interno di essi e questo, unitamente al fatto che non stiamo certo parlando di capolavori, non fa che appesantire l’ascolto. E ancora una volta la sensazione è che questi gruppi ultra famosi ed ultra blasonati non riescano davvero accettare di essere diretti da un esterno; oppure, cosa ben peggiore, c’è una sudditanza psicologica tale per cui neppure un produttore famoso riesce ad imporre la propria visione a gente che ha fatto la storia del rock.

Dietrologie a parte, Dark Matter, che pure dura solo 48 minuti, è di una pesantezza cosmica e arrivare alla fine è decisamente un’impresa. Soprattutto la seconda parte, con una maggior presenza di ballate, risulta fin troppo statica, anche perché su questo terreno il gruppo ha scritto cose memorabili anche in tempi recenti, di fronte ad essi questi nuovi episodi semplicemente scompaiono. “Upper Hand” è noiosa e passa via senza lasciare traccia, “Something Special” potrebbe farsi apprezzare per i toni leggeri e l’affettuosa dedica di Eddie Vedder alle figlie Olivia e Harper, ma è fin troppo banale ed autocitazionista per apparire credibile. Ancora peggio va con “Setting Sun”, classico pezzo di chiusura, intimista e un poco scuro che, davvero, non si capisce come possa essere accaduto che si siano guardati dopo averla scritta ed abbiano decisa di inserirla in scaletta.

A completare il quadro c’è “Waiting for Stevie”, descritta da Stone Gossard come un involontario tributo ai Soundgarden e boh, non ho proprio capito perché; “Got to Give” è una bella schitarrata lineare, accordi aperti e feeling di generale serenità, tutto sommato piacevole anche se, di nuovo, su questa falsariga hanno scritto di meglio (“Gone”, per esempio).

 

Durante un evento di ascolto in anteprima riservato ad amici e addetti ai lavori, Eddie Vedder ha dichiarato che questo sarebbe il loro lavoro migliore. Ecco, vorrei veramente sapere cosa succede nel cervello di artisti con una carriera importante alle spalle, nel momento in cui fanno certe dichiarazioni.

Da qualunque parte lo si rigiri, Dark Matter è un disco inutile anche per i fan della band, perlomeno quelli che, nonostante l’amore, conservano ancora un uso della ragione tale da riuscire a stabilire un certo distacco obiettivo.

Scelgo di dare comunque la sufficienza: ci sono quei tre brani di cui ho detto e, soprattutto, avevo dato un voto in più all’ultimo dei Måneskin che, vi assicuro, non brillava per nulla.

Il mio augurio spassionato è che siano in grado di dire basta quanto prima.