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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
19/12/2022
Chris Rea
Dancing with Strangers
Scorre il 1987 e Chris Rea sta ideando il nuovo album, nono in nove anni. Già i precedenti Shamrock Diaries e On The Beach hanno dimostrato una notevole crescita artistica e compositiva, ma per Dancing with Strangers il songwriter britannico raggiunge un’intensità senza precedenti. Ci mette “cuore e chitarra” come non mai, creando un’opera indimenticabile, tra brani autobiografici e roventi riff che gli apriranno le porte di una nuova fase della carriera.

Ne è passata di acqua sotto i ponti dal debutto del 1978, Whatever Happened to Benny Santini?, con il singolo trainante "Fool (If You Think It’s Over)", e se i successivi dischi crescono di intensità e regalano hit come "I Can Hear Your Heartbeat", "Josephine" e "On the Beach", brani in perfetto equilibrio tra pop e soft rock che godono di massiccio airplay radiofonico, è altresì vero un fatto: a Chris Rea manca ancora qualcosa per sfondare definitivamente, per ottenere quel successo in grado di mettere d’accordo pubblico e critica e, soprattutto, per farlo sentire completamente soddisfatto, in pace con se stesso, lui, così umile, schivo, tendente a eclissarsi dai grandi palcoscenici. Probabilmente l’artista di Middlesbrough non ha sfruttato ancora appieno le sue doti compositive abbinandole a quelle enormi chitarristiche e si è accontentato di scrivere melodie orecchiabili e di facile presa; niente di male, per l’amor del cielo, anche perché canzoni come "Ace of Hearts", "Stainsby Girls" e "Hello Friend" sono graziose, oltre che genuinamente romantiche, ma non sembrano venire pienamente dal profondo del cuore, del vissuto, o forse, per meglio dire, ogni album concepito fino a quel momento non mantiene la qualità e la continuità in ogni pezzo in scaletta e l’emozione evapora durante l’ascolto.

Dancing with Strangers, invece, è molto autobiografico, scava a fondo nell’uomo Rea, si avvertono nei testi e nelle melodie quanto pesino i ricordi d’infanzia, le delusioni adolescenziali, come di quando lavorava con il padre nell’impresa di famiglia, una caffetteria che produceva anche gelato in proprio e le sue idee non venivano mai considerate, spingendolo a cambiare e a studiare per diventare giornalista. Si percepiscono vivamente, adesso, la maturità, l’evoluzione del suo pensiero e appare sempre più palpitante la passione per la musica, allora unica fonte di salvezza in un periodo difficile, in cui faticava a intraprendere la propria strada.

Nell’album, inoltre, si comincia a sentire il vecchio amore per il blues, si odono echi di Charlie Patton, Blind Willie Johnson e Sister Rosetta Tharpe, anche se in alcune tracce rimangono ancora piuttosto latenti (persiste per lunghi tratti l’intelaiatura pop-rock, saranno gli episodi discografici successivi a riavvicinarlo a tal genere completamente), ma ciò è comunque un buon compromesso e consente di “asciugare” e mitigare il retaggio con lo stile patinato e spesso plastificato degli Eighties. Risulta poi azzeccata e diventa vero e proprio marchio di fabbrica la chitarra slide, utilizzata a mo’ di coltello per riaprire vecchie ferite e successivamente ricucirle con armonie rassicuranti; tutta questa serie di indizi prova che il disco in questione è un’opera completa, potente, sincera e variegata in tutti gli undici pezzi che la compongono.

 

L’iniziale "Joys of Christmas", pubblicata a Novembre 1987, due mesi dopo l’uscita dell’LP, è il singolo che rappresenta con più coraggio questo mutamento, non assomigliando neanche lontanamente a "Driving Home from Christmas", morbida cantilena natalizia, precedente successo stagionale e in seguito diventato classico dei classici per creare ogni anno in quel periodo l’atmosfera di festa. "Joys of Christmas" raffigura l’esatto contrario del gaudio per le vacanze e i tempi felici, narra della sofferenza e della tristezza di viverle in un ambiente cupo. Tra roventi stacchi di chitarra e un groove oscuro, Chris Rea parla di “Ragazzi induriti dalle vicissitudini dell’esistenza che non hanno ancora 25 anni…senza soldi né un posto dove andare”, cui non viene nascosta fin dalla giovine età la realtà della vita: d’altronde il blues è nato in tempi difficili, e i tempi difficili non si fermano nemmeno quando arriva Babbo Natale. E ancora giù pesante con “Jimmy si è rotto la bocca in una rissa, ieri sera. Dice che sta bene. Andrà al club degli operai (che risate) per comprare qualcosa di forte e alleviare il dolore. Gioie del Natale…Stile nordico. La lampeggiante luce natalizia del blu della polizia gira per la strada.”

La vita al nord dell’Inghilterra, a Middlesbrough, con padre di origini italiane, madre irlandese e ben sei fratelli, aveva ben poca letizia da offrire e questo è il Natale che l’autore ha conosciuto. Tante insoddisfazioni e brutture non gli tolgono comunque la speranza in una situazione migliore tanto che risale proprio a quel periodo il desiderio di riscatto e rinnovamento spirituale. Così, seppur tardivamente, ormai ventenne, nei primi Settanta, miracolosamente non si perde negli oscuri meandri del quartiere in cui viveva, ma imbracciando la chitarra, con la grande passione che caratterizza un autodidatta, riesce a recuperare tutto il tempo perduto e ad avviarsi verso un percorso musicale che diventerà straordinario.

"I Can’t Dance to That" è un altro pugno nello stomaco, una metafora nella quale viene respinta la decadenza che si respira intorno, l’ideologia del progresso conducente a “La strada verso l’inferno” e che, fra l’altro, sarà il concetto chiave del successivo celebre The Road To Hell. Rea, criticando l’uso eccessivo dell’elettronica e tecnologia all’interno della musica apre a un discorso più ampio, ove rifiuta la meccanizzazione della vita a spese degli esseri umani, “Non riesco a ballare su questa cosa”, per lui orribile, e imposta le strofe su un boogie alla John Lee Hooker invocando il ritorno a valori più terreni. "Windy Town" segue, virando, però, su territori pop rock: è un lussureggiante uptempo pilotato dal piano di Kevin Leach, e dipinge con poesia una riflessione profonda su quanto tutto sia relativo in base all’età e al posto in cui si vive. Ora che ha intrapreso l’attività di musicista e ha perso i contatti con la città natia, spesso per lavoro ci è sfrecciato velocemente davanti senza nemmeno potersi fermare. Adesso, vedendola dal vetro di un bus o di un treno può solo tenersi stretto il ricordo di quando stava lì, fumandosi la malinconia in una sigaretta. 

 

Una delle caratteristiche che elevano Dancing with Strangers è quella di declinare limpide sonorità fresche e arrangiamenti raffinati riuscendo a mantenere un’energia intensa, e sicuramente la scelta di Rea di produrre completamente da solo il disco, al fine di sentirlo totalmente un progetto suo, si è rivelata vincente. Dopo anni in cui ha accettato “intrusioni” sullo sviluppo delle canzoni e sugli strumenti da utilizzare ora l’autore ha carta bianca e, oltre a delineare smisurate doti chitarristiche tra elettriche, acustiche e pure un banjo, nell’opera compaiono la sua passione per l’armonica, suonata così vicino alle amate radici blues e l’incredibile duttilità: in alcuni brani non si risparmia nemmeno alle tastiere, al piano, alla fisarmonica e cura la parte orchestrale sia a livello di ottoni, sia di archi. Un vero artigiano della musica, concepita inizialmente da lui solitario in studio, per poi circondarsi dei “soliti noti”, ovvero i fenomenali musicisti che lo hanno fedelmente accompagnato negli ultimi album, e un paio di new entry. Così si va dal già menzionato Leach, al batterista e percussionista Martin Ditcham e al bassista Eoghan O’Neill, cui si aggiungono lo straordinario funambolo irlandese David Spillane, re dei whistles e delle uillean pipes e l’epico chitarrista di stampo folk rock Jerry Donahue, famoso per aver fatto parte dei Fairport Convention.

Un lavoro che profuma dei campi di Provenza, si nutre nei pub di Norimberga, prima di specchiarsi nel lago di Montreux, luoghi magici ove è stato scritto e inciso: "Curse of the Traveller", che arriva dopo il rock and roll sarcastico antipolitico di "Gonna Buy a Hat", ne è una delle rappresentazioni più profonde con il suo incedere misterioso, le contaminazioni sonore dei sessionmen sopra citati e la voce roca e calda come non mai di Rea, il quale si lascia pure andare a un paio di “solo” da brividi. Sono oltre sei minuti di catarsi, in cui la “la maledizione del viaggiatore” è metafora del necessario percorso esistenziale dell’essere umano, costretto a girare e rigirare all’infinito alla ricerca di un significato per continuare e dimenticare l’insoddisfazione del presente. Un irrefrenabile muoversi verso la libertà e verso “il fiume dei sogni”, che anche se alla fine risulterà prosciugato, tentare di avvicinarsi e immergersi in esso permane una delle ragioni dell’esistere.

 

Il tema della fragilità temporale della condizione umana viene ripreso con toni più gioviali e speranzosi nella successiva "Let’s Dance", primo singolo della raccolta, accorato midtempo in cui si auspica la possibilità di tener lontano le intemperie della vita danzando insieme alla persona amata, e nella latineggiante "Que Sera", piacevole per brio e insaporita da un delicato arrangiamento d’ottoni.

"Josie’s Tune" è un tenero breve strumentale ravvivato da “fischietti e pipe” di Spillane, perfetto per favorire l’apertura di uno degli apici del disco, la ballata romantica dal riff uncinante "Loving You Again". Sentimentale, mai banale ode alla dolce metà di un’intera esistenza, “Dopo tutto questo tempo, dopo tutti questi anni, sto semplicemente continuando ad amarti”, rappresenta il brano dell’album che assorbe maggiormente l’influenza di un suono più basato sul soul e ispirato alla Motown. Anche in tale situazione la purezza dell’audio e l’alchimia sonora degli strumenti scelti lo rendono un sempreverde, uno dei classici intramontabili di Rea, il quale, per il finale, ha in serbo ancora due episodi di primi acchito definibili minori, ma in realtà di forte empatia.

Il ritmo rockeggiante di "That Girl of Mine" cadenza un testo dedicato all’attrice britannica Amanda Mealing, in quel momento famosa per il ruolo di Connie Beauchamp nella soap “ospedaliera” della BBC Holby City, mentre per la candida "September Blue" l’artista dà tutto se stesso, suonando ogni strumento presente per celebrare al meglio una persona a lui cara che ora non c’è più. “Ogni volta che vedo quella stella, dirò una preghiera per te, ora e per sempre, tristezza di settembre”, canta commosso Chris, dopo uno struggente incipit in cui la musica arriva laddove le parole e le lacrime non riescono. 

 

La possibilità di riscatto, la speranza di salvezza anche se l’esistenza è costellata da lutti, sofferenza e tristezza, hanno sempre fatto parte del pensiero e del vissuto di Chris Rea, che con Dancing with Strangers inaugura un filotto di album intensi e profondi, sia dal punto di vista lirico, sia compositivo, che ottengono pure un notevole successo commerciale. Il susseguente The Road to Hell (1989) si impossessa con ancor maggior sicurezza del blues, correndo sui binari di un rock più potente, meno vincolato alla leggerezza delle trame pop, e mantiene alta l’attenzione sui temi sociali e sul conseguente disfacimento morale dell’individuo. Sono due dischi da ritenere vertici di una carriera cui seguono un paio di lavori interessanti come God’s Great Banana Skin (1992) e Expresso Logic (1993), prima di riprendere il saliscendi discontinuo già avvenuto negli anni ottanta, senza una vera direzione artistica.

Sarà di nuovo il Blues, stavolta quello più viscerale, grezzo e senza compromessi, a salvarlo quando, agli inizi del nuovo secolo, pubblica il potente e sorprendente Dancing Down the Stony Road (2002). Provato nel fisico (sopravvive con una forza d’animo indicibile a un devastante tumore al pancreas), ma ritemprato dalla ritrovata vena creativa, il chitarrista britannico arriva ai giorni nostri con una numerosa serie di opere legate indissolubilmente alla musica del diavolo. Da ricordare Road Song for Lovers (2017), che lo riporta pure in tour, purtroppo prima di collassare proprio sul palco, fortunatamente senza gravi danni, durante uno degli ultimi show a dicembre di quell’anno. Chris Rea rimane un artista carico di fascino, con quella voce unica, roca e cavernosa, quella chitarra sempre in primo piano, spesso dolcemente ruvida, e quel tormentato cuore immenso, che gli hanno fatto percorrere intensamente le strade dell’animo umano, specie quando le aspirazioni sono le più alte, le più difficoltose, ma anche le più appaganti.