Difficile dire se Damned Devotion sia l’inizio o la fine di un percorso, se rappresenti, cioè, il punto di arrivo di una svolta cominciata già con The Deep Field (2011) e proseguita con The Classic (2014), oppure sia solo il primo tassello di una seconda parte di carriera. Joan Wasser, vero nome della quarantottenne songwriter del Maine celato sotto il moniker di Joan As Police Woman, ha intrapreso, infatti, un lungo percorso, che l’ha portata dagli inizi indie rock carichi di irruenza a svoltare verso sonorità più meditate e raffinate e, quindi, a virare decisamente verso un soul in bilico fra modernità e modernariato. Una svolta lenta, che ha trovato un decisivo cambio di passo nel citato The Classic, disco ragionato e maturo, che non nascondeva le proprie fonti di ispirazione (Stevie Wonder, Erikah Badu, Chic e, perché no, Amy Winehouse) ma le rielaborava però con quella sensibilità artistica disposta a guardare più verso il futuro che verso il passato.
Un disco piacevolissimo, quello, di moderna e affascinante black music, pervaso da un mood prevalentemente divertito e da un suono che brillava dell’esuberante loquacità di chi è finalmente felice di essere in vita, dopo aver mangiato il pane duro di svariate tribolazioni (le stigmate mai rimarginate per la perdita di Jeff Buckley, la morte dell’amato padre e una grave depressione).
Damned Devotion è un ulteriore passo avanti, un disco che trasmette la sensazione che il suono di The Classic abbia subito una definitiva evoluzione, tanto che quella parola “classico” si è trasformata da canone estetico a lontana e primigenia fonte d’ispirazione. Di vintage, infatti, c’è poco o niente nel sesto capitolo della discografia di Joan (settimo, se si conta Let It Be You del 2016 pubblicato in condominio con Benjamin Lazar Davis), e se si volesse trovare una definizione per cogliere l’essenza di queste canzoni si dovrebbe più correttamente parlare di post (o avant) soul.
A prescindere da queste classificazioni, spesso inutili, è fin da subito evidente che il disco è attraversato da una sensualità ipnotica e crepuscolare e che gli arrangiamenti sono minimali, asciutti e funzionali a un’estetica tormentata, ma al contempo declinata attraverso la sofisticatezza delle forme. Un apparente contro senso, certo. Eppure, regge sulla distanza, questa dicotomia, questo esibire una scrittura ispirata alla notte e alla sofferenza tramite un suono che trasuda hype, che leviga le canzoni con eleganza, che permea di coesione ogni singola nota del disco.
Ed è proprio il quadro d’insieme la vera forza di una scaletta che richiede un’inusuale intensità d’attenzione e che manca di quei ganci melodici che fanno da traino all’ascolto e che in The Classic, ad esempio, si sprecavano. Se si eccettua l’iniziale Wonderful, che seduce con un ritornello soffice come l’ovatta, e la dolce, bellissima What Was It Like, ballata dedicata al padre, Damned Devotion scorre lento e sinuoso come un lungo fiume, alla cui corrente fatta di tentazioni trip hop, di sfumati contorni jazzy, di disadorni groove funky, di soul arrotondati da soffuse luci pop, occorre abbandonarsi senza opporre resistenza.
Con la consapevolezza di trovarsi di fronte all’ennesimo grande disco di una musicista che riesce a rinnovarsi e a migliorarsi di anno in anno, senza mai tradire se stessa e i moti appassionati della propria anima.