Assistere a un concerto di Buddy Guy è un’esperienza unica, catartica. Ovviamente canta e suona molto bene, da navigato uomo di spettacolo intrattiene e delizia con tutti i trucchi possibili che escono dalla sua chitarra, ma non solo. La prima volta che si partecipa a un suo show lascia davvero a bocca aperta per quanto e come riesca a darsi in pasto al pubblico in modo inusuale, ricordando per fantasia Jimi Hendrix, di cui comunque era mentore, e per tradizione tutti i maestri/compagni con cui si è esibito in studio e dal vivo, da Muddy Waters e Little Walter a Junior Wells, senza dimenticare Sonny Boy Williamson, Howlin' Wolf e B.B. King, ma la lista sarebbe lunghissima. Fantasia e tradizione che, sommate a un profondo sentimento, caratterizzano l’unicità del marchio Buddy Guy; difficile trovare un altro personaggio che incorpori decenni di accadimenti e mutamenti nel blues in modo così sopraffino, riconoscibile dal primo istante e nello stesso momento inimitabile.
Il buon Buddy, però, non ha mai scordato i frangenti bui, in cui sembrava caduto nel dimenticatoio e per lui si prospettava un infinito oblio. Per questo motivo, con un fine nobile e come se volesse sdebitarsi per le attenzioni ricevute in un periodo difficile, adora salire sul palco con i più giovani, perché tutto ciò di cui ha fruito necessita pure di un futuro: nel tempo, dunque, Jonny Lang, John Mayer, Quinn Sullivan, Derek Trucks e Susan Tedeschi, fra i tanti, hanno avuto l’onore di duettare con lui. Come appunto nel 1991 Eric Clapton, Jeff Beck e Mark Knopfler non hanno mancato di dare una mano a Guy nel disco della rinascita, Damn Right, I’ve Got The Blues, il ritorno, dopo quasi due lustri di assenza. E se pure gli anni settanta erano stati difficili, nonostante le insindacabili vette di Play the Blues con Junior Wells e del visionario Stone Crazy!, finalmente il “migliore suonatore di chitarra vivente”, come definito da Clapton, vola verso un meritato successo, ma soprattutto si riafferma a buon diritto nel music business, tanto che sfornerà numerosi album ed eventi di rilievo nel prosieguo - su tutti Slippin’ In (1994), Blues Singer (2003), Skin Deep (2008), Born to Play Guitar (2015), The Blues Is Alive and Well (2018) e le partecipazioni ai vari Crossroads Guitar Festival -, rimanendo tuttora un riferimento per gli appassionati e un punto fermo nella storia delle sette note.
L’inizio dell’opera, d’altronde, è piacevolmente frastornante, con l’autografa title track inondata da una rumorosa pioggia di sonorità potenti. Uno scroscio comunque mai fine a se stesso, in puro stile Buddy Guy, entusiasta di esser supportato da una band d’eccezione, comprendente Greg Rzab, poderoso bassista dal tocco micidiale, che nella sua carriera vanta collaborazioni con la leggenda Otis Rush, i cavalieri del southern rock Black Crowes e Gov’t Mule financo a prestazioni di alto livello con John Mayall e i suoi Bluesbreakers. La presenza di Richie Hayward, poi, aggiunge un pizzico di imprevedibilità, tipica dei losangelini Little Feat, di cui era batterista originario, e il brano vede chiaramente in gran spolvero il padrone di casa, tra un cantato sofferto e un guaito di Fender lancinante, da far sobbalzare sul divano chi lo sta ascoltando.
Insomma, parafrasando il titolo, Guy ha dannatamente ragione, dentro di lui vi è il blues più vero, quello che arde a volte inconsciamente all’interno di ognuno di noi, ma solo chi ha la sensibilità giusta può viverlo, condividerlo e suonarlo.
“You damn right, I’ve got the blues
From my head down to my shoes
I can’t win, cause I don’t have a thing to lose…”
“Puoi scommetterci, ho il blues dalla mia testa fino giù alle scarpe. Non posso vincere, perché non ho niente da perdere…”
Ecco parole che esprimono il significato di questo genere musicale: ogni problema viene affrontato, pur sapendo che è insormontabile, con un pizzico di ironia e teatralità, raccontandolo, cantando e danzando. Non si può trionfare in queste condizioni, ma non c’è nulla da temere perché in palio ci sono solo cose effimere. Così si accettano le asperità dell’esistenza ricordandosi che anche i momenti di felicità sono attorniati da un filo di tristezza, fa parte dell’essere umano e a ciò non sfugge nessuna categoria di persona.
“Se ascoltate I testi noterete che cantiamo della vita di ogni giorno: gente ricca alla ricerca di un metodo per non perdere i propri soldi e poveri con il desiderio di prenderli…tutti, poi, con problemi con il marito o la moglie!”
"Five Long Years", dal repertorio del sottovalutato vocalist e songwriter Eddie Boyd, ricalca perfettamente quanto sopra affermato da Buddy, con la disperazione del protagonista della storia, un uomo affannato per il duro lavoro e pure maltrattato dalla compagna. La resa di questo classico tocca i vertici delle emozioni per tutti gli oltre otto minuti in cui la chitarra miagola e poi piange disperazione, incarnandosi perfettamente nelle lamentele del malcapitato. Un delizioso solo di piano permette di introdurre un altro gioiellino di artista, il “tuttofare” Pete Wingfield, vera istituzione della musica, con collaborazioni che spaziano da B.B. King a Paul McCartney e Dexys Midnight Runners. Un altrettanto pregiato session man è l’umile Neil Hubbard, un personaggio che nella sua carriera ha fatto parte della Grease Band, associata a Joe Cocker in uno dei periodi di massimo splendore a fine anni sessanta e in seguito si è distinto nella colonna sonora di Jesus Christ Superstar. La chicca personale rimane l’assolo in "Slave to Love" di Bryan Ferry, mentre qui si mette a disposizione del produttore, il mago del sound John Porter, confezionando preziosi ricami di chitarra da accostare all’esuberanza del boss in questione.
Meritano un attento approfondimento le canzoni con gli ospiti speciali. Sono davvero molto azzeccate, se si dovesse cercar un difetto spiace che il padrone di casa lasci sfogare i tre giganti della sei corde senza duettare con loro, dedicandosi solo alla parte vocale e ritmica.
Comunque "Where Is The Next One Coming From" è esorbitante per contenuti. Mark Knopfler per l’occasione si trasforma in Buddy Guy e, pur mantenendo il suo stile riconoscibile, si lancia in continui fraseggi e “soli” di blues davvero entusiasmanti, accompagnato bellamente dagli impeccabili Memphis Horns. I cori delle bravissime Tessa Niles, Katie Kissoon e Carol Kenyon insaporiscono di un retrogusto soul-rhythm and blues l’esecuzione di questo pezzo, reminiscente Bill Withers, ideato dal prolifico John Hiatt – ricordate "Riding with the King" nell’album omonimo di Clapton e B.B. King? Ebbene l’ha composta lui! –.
Lo standard "Mustang Sally", che fra l’altro include Molly Duncan, Sid Gauld e Neil Sidwell ai fiati, è rampa di lancio per le acrobazie di Jeff Beck, uno che il suo strumento lo fa ululare, mentre ancora un classico, Early In The Morning, di Luis Jordan, si avvale invece delle doti di Slowhand, devastante per intensità anche in poco più di 180 secondi.
Sicuramente tali prestazioni hanno concorso a far aggiudicare un Grammy a questo disco da brivido, ma non bisogna sottovalutare altre tracce dove l’impronta sonora del musicista nato in Louisiana si evidenzia in maniera efficace. La colorata "Here Is Something On Your Mind" fa fuoriuscire dalla tavolozza pure un incantevole sax targato Andrew Love e Too Broke To Spend The Night incarna al cento per cento ciò che Guy rappresenta nel suo virtuosismo: un inarrestabile uragano!
Se da una parte rimane appunto sconvolgente come l’approccio e la tecnica utilizzate siano uniche, da far pensare che siano tre o quattro chitarristi a riprodurre quello che in modo strabiliante esegue, invece, da solo, dall’altra è veramente di gran classe come a volte abbassi volume e toni della Stratocaster per lasciarla sussurrare e poi ripartire con inusitata veemenza.
La già citata "Five Long Years" è un esempio di quanto espresso nelle ultime righe, ma ora bisogna spenderne altre per elogiare l’esecuzione di "Black Night", dal songbook dell’irresistibile Charles Brown (Inverno 1950/51), scritta da Jessie Mae Robinson. Il piano di Wingfield si accoppia teneramente con l’organo di Mick Weaver, ma la vera apoteosi sono i gorgheggi finali di Buddy, che non lasciano scampo, esterrefatti da tanta quantità e qualità si rimane senza fiato quando viene subito dopo riproposta la sempiterna "Let Me Love You Baby", del mitico Willie Dixon, già cavallo di battaglia dell’artista di cui stiamo parlando nel 1961.
La chiusura dell’opera merita un discorso a parte.
Quando viene registrato il lavoro è ancora fresca la ferita per la scomparsa di Stevie Ray Vaughan, con cui Guy aveva suonato nell’ultimo show, prima della tragica fine. Come il blues stesso, la vita di Buddy è stata un alternarsi di gioia e dolore, bellezza e tristezza. Il trauma vissuto è di una sofferenza inenarrabile: proprio nel momento di massima intensità, quando l’amicizia si era cementata e la stima reciproca faceva pensare anche alla possibilità di realizzare un album insieme, sopraggiunge il destino feroce.
“Stevie aveva riportato l’interesse per il blues nei difficili anni ottanta e gliene ero infinitamente grato. Il modo migliore per ricordarlo? Dovrebbe esistere il paradiso del blues. Ho già in testa l’immagine della band: Muddy Waters, Otis Spann, Fred Below, Little Walter, Stevie Ray Vaughan. Ecco un gruppo per cui varrebbe la pena morire.”
"Rememberin’ Stevie" è il brano conclusivo, uno strumentale struggente, dove la chitarra di Buddy Guy sorvola, superandolo, l’infinito e fa sentire sulla pelle sensazioni mai provate. A tratti, volutamente, rievoca Vaughan, facendo sgorgare lacrime di commozione a chi la ascolta intensamente, nel buio di una stanza, dimenticandosi per un attimo del mondo.