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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
17/07/2023
Live Report
Damien Rice + Hozier, 15-16/07/2023, Anfiteatro Vittoriale
Una due giorni di concerti a Gardone Riviera per assistere ai live di Damien Rice e Hozier, nella splendida cornice dell'Anfiteatro del Vittoriale.

Sulla bellezza di un posto come l’anfiteatro del Vittoriale e di come sia una delle venue più indicate per la musica dal vivo nel nostro paese, non mi pare sia più il caso di soffermarsi. Sarà anche una considerazione da vecchio quale mi accingo a diventare, ma sono sempre più convinto (e da bravo vecchio lo sto scrivendo sempre più spesso) che i concerti, per essere vissuti e goduti al meglio, debbano essere un affare di luoghi contenuti e buona visibilità da ogni posizione.

I raduni oceanici negli stadi o, peggio ancora, nelle spianate di sterrato senz’ombra, servono senza dubbio alla celebrazione, sono un rito comunitario di cui molti non possono fare a meno (e che io stesso ho frequentato negli anni precedenti) ma che non hanno quasi mai a che fare con la musica in senso stretto. L’obiezione è ovviamente sempre quella: per vedere certi artisti, gli spazi piccoli non bastano. Vero, infatti credo che, mia personale opinione ovviamente, dopo i palazzetti sia inutile andare: se il vostro gruppo preferito ha iniziato a fare gli stadi, pregate di averlo già visto in precedenza, altrimenti lasciate perdere. A meno che non siate dei seguaci del “io c’ero” perenne e delle storie Instagram come non ci fosse un domani.

L’anno scorso a Gardone di Riviera, in quella che era stata la prima vera stagione del post Covid, non ero riuscito ad andare, quest’anno ho invece abbandonato Milano proprio nel giorno in cui i due ippodromi della città, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, erano occupati rispettivamente da Iron Maiden ed Arctic Monkeys. Bisogna essere folli, direte voi, a mettere due eventi così grossi nello stesso posto lo stesso giorno. Sinceramente non ho voluto sapere come sarebbe andata a finire (per quanto gli Iron Maiden, beninteso, in un contesto più decente me li sarei pure rivisti volentieri) e sono migrato sul lago di Garda per una due giorni di concerti che prevedeva Damien Rice e Hozier, accomunati dall’essere entrambi irlandesi e dall’essere entrambi tornati da poco sulle scene dopo un lungo periodo di inattività.

 

Damien Rice non fa un disco da quasi dieci anni e per quanto My Favourite Faded Fantasy fosse un capolavoro di proporzioni indefinibili (mio disco del 2014, lo ricordo bene) da tempo comincia a non bastarci più. L’artista irlandese è notoriamente imprevedibile, non è mai stato legato alle logiche del music business, ha sempre fatto letteralmente quello che voleva e non si è mai fatto costringere dalle scadenze. Non è quindi dato sapere che cosa stia combinando e ormai non ci si deve più stupire quando, di tanto in tanto, viene annunciato un nuovo tour (dalle nostre parti era già venuto a marzo, per due date a Milano e Udine).

A questo giro il tema è sempre quello del Sailing Boat inaugurato qualche anno fa: suonare in località di mare spostandosi in barca per evitare di pesare troppo sulla sostenibilità ambientale. Gardone non è sul mare ma era un posto dove non aveva mai suonato e si è dunque lasciato convincere abbastanza facilmente. E così, lasciata la barca ormeggiata nei pressi di Pisa (se si deve credere a quello che lui stesso ha dichiarato durante il concerto, rispondendo ad una domanda di uno spettatore) ci ha dato la possibilità di ammirarlo in un posto decisamente sotto dimensionato, rispetto ai suoi soliti standard.

 

Che anche lui, come tutti quelli che suonano qui, sia rimasto stregato dalla magia del posto, lo si capisce già dal suo ingresso sul palco, quando decide di suonare il primo pezzo rivolto verso il lago (che per chi non sia mai stato qui, si trova alle spalle del palco) dicendo di volerselo godere per un ultimo istante, prima che scompaia avvolto dall’oscurità.

E il primo pezzo, manco a farlo apposta, è un brano nuovo: “I Stepped Out in the Rain” era già stata suonata nel corso degli ultimi concerti e, almeno ad un primo ascolto, è splendida, ulteriore conferma da parte di un artista che, a livello di scrittura ha davvero pochi eguali al mondo.

Rispetto all’ultima volta che l’ho visto, l’impostazione data al concerto è cambiata molto: via quasi del tutto loop ed effetti vari, con le distorsioni su voce e chitarra limitate giusto ad un paio di episodi (tra cui una strepitosa “My Favourite Faded Fantasy”, parzialmente riarrangiata nella parte iniziale), si punta su un approccio acustico crudo e minimale, voce e chitarra, ogni tanto il piano, senza nessuna sovrastruttura, che in passato tendeva ogni tanto a rendere il tutto un po’ sovrabbondante.

Una novità è anche la presenza di Chica Barreto, presente col suo violoncello in gran parte dei brani e fondamentale anche alle seconde voci: grazie a lei gli episodi in scaletta si arricchiscono di nuove sfumature di profondità e soprattutto possiamo goderci alcune esecuzioni in una versione molto simile all’originale in studio: è il caso di “Volcano” o di “I Remember”, dove l’artista brasiliana si dimostra davvero a suo agio anche in veste di voce solista.

 

Per il resto, spendere parole risulterebbe quasi del tutto inutile: Damien Rice è un autore e performer eccezionale, ha pubblicato tre dischi uno più bello dell’altro, ovunque vada a pescare non sbaglierà mai. “Delicate” e “Cannonball”, suonate in solitaria, fanno correre più di un brivido lungo la schiena, mentre “Accidental Babies”, al piano, è semplicemente una delle performance più emozionanti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni. Un brano che dal vivo è risultato ancora più scarno dell’originale, pochi tocchi sui tasti, voce quasi sussurrata ma tremendamente sentita in ogni singola parola, un lavoro di sottrazione magistrale che viene seguito dagli spettatori in uno stato di irreale sospensione. Non me ne vogliano i vari Glen Hansard, Bruce Springsteen, The Tallest Man on Earth, Eddie Vedder: quando Damien Rice è in questo stato d’ispirazione, semplicemente tutti gli altri scompaiono.

Tra un pezzo e l’altro si diverte a scambiare due parole col pubblico, spiegando i retroscena di qualche canzone, come di “Trusty and True”, che racconta essere nata come una sorta di condanna da una certa mascolinità tossica che durante la sua adolescenza ha visto nei padri delle famiglie irlandesi che frequentava.

A metà arriverà anche un altro brano nuovo, “Astronaut”, uscito nel novembre scorso e parte di The Busk Record, una compilation realizzata dalla Dublin Simon Community, associazione che si occupa di assistere i senzatetto in vari luoghi dell’Irlanda. È un brano piuttosto cupo, eseguito al pianoforte, arricchito da effetti e distorsioni varie che l’hanno resa ancora più straniante.

 

Rispetto ad altri concerti, i momenti dedicati alle richieste sono solo due ma ci regalano perle preziose: la prima è “Elephant”, che dice di volere suonare ugualmente (nonostante abbia linee vocali impegnative e lui dica di non stare benissimo di voce) per accontentare una ragazza che nel corso del pomeriggio gli ha portato il disegno di un elefante. Esecuzione magistrale, di una drammaticità straziante, rovinata solamente nel finale, quando deve fermarsi a tossire perché una mosca gli è entrata in bocca…

La seconda richiesta è “Amie”, che i presenti chiedevano a gran voce da un bel po’, un altro brano fondamentale del suo repertorio, omaggiata da un’altra performance indimenticabile.

Nel finale arriva la gradita sorpresa (almeno per me, alcuni non ne sono stati altrettanto contenti) di Francesca Michielin, che Damien dice di avere inseguito per tutto questo tour italiano, ma di non essere mai riuscito ad invitarla sul palco perché anche lei è in tour e gli impegni non coincidevano mai. I due, se mi ricordo bene, sono diventati amici diversi anni fa, quando ha cantato con lui “Volcano” durante un aftershow. Questa sera eseguono assieme “9 Crimes”, Damien al piano, Francesca accanto a lui, sicura e precisa nelle seconde voci, perfetta nella sua parte solista. A fine canzone si scambiano velocemente di posto, lei si mette al pianoforte, lui imbraccia la chitarra e si lanciano in un suggestivo snippet di “Rootless Tree”, satura e rabbiosa, con tanto di distorsioni, per poi rituffarsi nel brano principale.

Checché ne dicano i detrattori, Francesca Michielin ha dato prova di essere un’artista di primo livello e la sua presenza in uno dei brani più belli del repertorio dell’irlandese, non ha fatto altro che rendere ancora più speciale questa serata.

È finita così, purtroppo. È già durato un’ora e mezza ma non ce ne siamo accorti, si sarebbe tranquillamente potuti andare avanti ore. In programma c’è un solo bis ed è ovviamente “The Blower’s Daughter” ad essere regalata ai presenti con straordinaria delicatezza, un saluto soffuso che l’abbraccio del lago e della notte serena ha reso ancora più bello.

Speriamo di rivederlo presto, possibilmente con un disco nuovo da promuovere.

 

 

La sera successiva, come detto, è di scena un altro irlandese ma la proposta non potrebbe essere più distante da quella di Damien Rice. Hozier, al secolo Andrew Hozier-Byrne, è cresciuto col Soul e con la musica corale (ha fatto parte per breve tempo degli Anúna) e la sua scrittura si muove di conseguenza, declinata su sonorità contemporanee, leggere ma a suo modo molto efficaci. Ha spopolato grazie a "Take me to Church", che è divenuta virale su Spotify e ha garantito enorme visibilità al suo disco di debutto, uscito nel 2015 e candidato a diversi premi.

La sua è stata la prima data a risultare sold out all'interno della rassegna di quest'anno; tanto più sorprendente se si considera che dalla pubblicazione del suo secondo disco Wasteland, Baby!, nel 2019, è arrivato solo un EP di quattro pezzi, Unknown/Nth, che da solo ha costituito il pretesto per un nuovo tour (ad agosto uscirà però il nuovo album Unreal Unearth). È interessante constatare come, in quest'epoca di accelerazione mordi e fuggi, la sua stella non sia affatto tramontata, segno evidentemente di una carriera che poggia già su solide basi.

Il pubblico questa sera è decisamente più giovane e a prevalenza femminile,  abbastanza comprensibile se si pensa alle sue canzoni, in possesso di quel quid necessario per piacere alle giovani generazioni.

 

In apertura c'è Victoria Canal, che lo sta accompagnando in giro per queste date estive. Classe 1998, ispano-americana ma di origini tedesche, è in giro dal 2015 ma non ha ancora esordito su disco, al suo attivo ha per ora solo un discreto numero di singoli l'ultimo dei quali, Shape, uscito a giugno.

Bella voce, umore solare e molto comunicativa; le sue canzoni non si fanno tuttavia notare, rimanendo nell'alveo di un alternative Folk piuttosto prevedibile, seppure ben costruito. I presenti appaiono comunque conquistati da questa mezz'ora scarsa, un po' alla chitarra e un po' al piano elettrico, che includono anche una buona cover di "Motion Sickness" di Phoebe Bridgers, giusto per sottolineare ancora di più quali sono i riferimenti artistici della ragazza.

Niente che mi abbia fatto venire voglia di ripassare ma sono contento che sia stata accolta così bene.

 

Avevo visto Hozier nel 2019, appena prima della pandemia, e ne avevo ricavato un’impressione positiva, anche se non ricordo tutti i particolari del concerto. Questa sera l’atmosfera è febbrile già durante il cambio palco, coi roadie che vengono accolti da un boato fragoroso tutte le volte che salgono sul palco, ed un singalong istantaneo nel momento in cui, dopo una lunga infilata di classici Blues e Soul, dagli speaker si diffonde “Ho Hey” dei Lumineers. Con un’audience così giovane non potrebbe essere altrimenti ed è anche giusto così.

Si parte con la nuova “Eat your Young” e siamo immediatamente avvolti da un’ondata di gioiosa energia. Sul palco sono in nove, tra tastiere, violino, violoncello, percussioni e chitarre, si tratta in pratica di una piccola orchestra, il modo migliore per valorizzare il sound e l’impatto di queste canzoni.

Nei momenti più energici non tutto funziona a dovere: i suoni un po’ impastati e si faticano a distinguere tutti gli strumenti, specialmente la componente vocale, molto importante visto che sono quasi tutti impegnati al microfono, risulta un po’ penalizzata nelle battute iniziali.

Il feeling generale è però travolgente: “Jackie & Wilson” trascina col suo impatto chitarristico e risulta anche fin troppo chiaro come i musicisti sul palco si stiano divertendo alla grande. Il pubblico avverte questa energia  e non tarda ad alzarsi in piedi con rumorosa partecipazione. È uno di quei concerti in cui le sedie stanno strette e saranno molti altri i momenti in cui sarà impossibile tenere la gente al proprio posto, anche se bisogna dire che in generale c’è stata molta correttezza nel rispettare le indicazioni.

 

Band in gran spolvero, dunque, autentico valore aggiunto di questa esibizione, senza nulla togliere al suo leader, che canta e suona benissimo, pur non avendo chissà quale presenza scenica. Unico appunto è forse che sono sempre un po’ troppo dritti,  attenendosi al pezzo senza troppo strafare: un peccato perché sono canzoni che si presterebbero ad improvvisazioni e divagazioni varie e così rimane sempre la sensazione di un potenziale inespresso.

Ecco perché forse uno dei momenti migliori è “Almost (Sweet Music)”, dove salgono in cattedra le percussioni e dove ogni membro ha la possibilità di esibirsi in un piccolo assolo; notevole anche “Angel of Small Death & The Codeine Scene”, altro highlight della serata: voci da brivido, esecuzione potente da parte di una band al suo meglio, la ciliegina sulla torta di un solo di violino nella parte finale.

Bellissima anche “To be Alone”, potente e maestosa, un gospel marziale e piuttosto cupo, mentre “Like Real People Do” (cantata assieme a Victoria Canal) e “From Eden” sono due episodi più distesi, con la seconda soprattutto che colpisce per la sua energia liberatoria.

Tra i nuovi brani spicca invece “Francesca”, insolitamente improntata ad un certo Hair Rock anni ’80, che Hozier si dice particolarmente felice di eseguire in Italia, visto che è ispirata all’omonimo personaggio del quinto canto dell’Inferno dantesco (spiace constatare come, ancora una volta, le reali intenzioni di Dante nel raccontare la vicenda sono state completamente travisate, anche se dopo lo scempio operato da Benigni tutto è possibile, dopo tutto questo è un concerto e il pezzo è veramente molto bello).

 

Stasera c’è poi una sorpresa ed è la prima assoluta di “De Selby”, che probabilmente farà parte del nuovo disco, una sorta di suite in due parti, la prima piuttosto lenta, a tratti orchestrale e influenzata dalla musica irlandese, la seconda più ritmata e vicina allo stile classico dell’artista, con un ritornello che funziona splendidamente. Essendo la prima volta che veniva suonata dal vivo, Andrew chiede gentilmente al pubblico di mettere via i telefoni (“Lasciamo che sia solo un momento tra noi") e da quanto sono riuscito a vedere, le indicazioni vengono rispettate, così che siamo riusciti a goderci il pezzo in totale tranquillità.

Il finale, come da copione, è un crescendo di potenza, con “Movement” e soprattutto “Take Me to Church”, che vedono nuovamente tutti in piedi e la band che suona al massimo delle possibilità, con Hozier che abbandona la chitarra per concentrarsi solo sulla voce, offrendo davvero una magnifica prova.

Nei bis si torna ad un atmosfera di raccoglimento: dapprima con “Cherry Wine”, eseguita in solitaria, poi col ritorno di tutto il gruppo per una “Work Song” dove ancora una volta l’elemento corale sale in cattedra.

Con tutte le riserve del caso (artista a tratti fin troppo leggero, scrittura derivativa e a tratti ruffiana, ecc.) bisogna ammettere che dal vivo Hozier sa il fatto suo e i suoi concerti hanno uno spessore che merita assolutamente di essere visto. Lo attendiamo col nuovo disco: le premesse perché sia un bel lavoro ci sono tutte.

E ancora una volta grazie all’Anfiteatro del Vittoriale per essere stato il fattore in più dietro la riuscita di queste serate.