Esiste un libro intitolato I Proprietari_Die Besitzer_Les Propriétaires_The Owners[1] che raccoglie le impressioni e le immagini di coloro che hanno l’onore di avere (in qualche caso avere avuto) uno o più esemplari della Merda d’artista di Piero Manzoni: esso si divide (nelle quattro lingue[2]) nei seguenti capitoli: “In quali circostanze e a che prezzo ha comprato la scatola?”, “Che senso le dà?”, “Cosa c’è all’interno della scatola?”, “Pensa che un giorno vorrà separarsene?”.
“Il 12 agosto 1961, in occasione di una mostra [collettiva] alla Galleria Pescetto di Albisola Marina, Piero Manzoni presenta per la prima volta in pubblico le scatolette di Merda d’artista (‘contenuto netto gr. 30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961’). Il prezzo fissato dall’artista per le 90 scatolette (rigorosamente numerate) corrispondeva al valore corrente dell’oro.”[3].
Piuttosto curiosamente, Piero Manzoni non è molto considerato[4] dal grande pubblico delle mostre d’arte (quelle mostre per le quali la gente è disposta a fare le code e poi i visitatori si comprano il manifesto[5]), ma molti dei libri che lo riguardano dopo aver venduto poco, poi diventano piuttosto ricercati: la sola spiegazione è un costante anche se ridotto interesse nei suoi confronti che induce coloro che sono interessati alla sua opera a cercare fra i pezzi della sua bibliografia.
La ragione per cui Piero Manzoni mi entusiasma è che è stato il primo a vendere “merda” e “artista”; successivamente, negli anni si è sempre venduta più “merda” con la pretesa che fosse “arte”[6]. Per poi passare a “merda venduta per altro” (scegliete voi il genere merceologico o di servizi).
È ben nota l’inversione di ruoli: ci si dichiara merda per insultare gli altri che si pensa essere effettivamente tali.
Evidentemente ci voleva già cinquantadue anni fa qualcosa che risaltasse per tutti irriverente[7]: infatti, l’Artista aveva già prodotto opere d’arte consistenti in, di volta in volta: rotoli di carta con linee impresse sopra, uova sode accompagnate dalla propria impronta digitale del pollice a inchiostro, palloni gonfiati con il proprio afflato, corpi di modelle (e altri) semplicemente firmati.
Quella di Piero Manzoni fu una vita breve, neanche 30 anni, da maudit lombardo di aristocratiche origini (nato a Soncino, morto a Milano di infarto - oppure no: in fondo finché il cuore non si ferma non si è morti).
La sua biografia spicciola è un disco o un CD che salta[8] sempre sulla stessa strofa: Milano anni ’50 e ’60 (poco poco) del secolo scorso, Brera bohémienne, Luciano Bianciardi[9], Bar Jamaica (dunque), blah blah blah, etc.[10]
Miei desiderata per la mostra milanese: una mappa dal titolo “Tutte le Merde di Milano”[11] che indichi dove si trovano le scatolette d’artista superstiti (sono ancora tante) presenti nella nostra città; una riproduzione a mo’ di fermacarte (in ottone per mantenere la grammatura totale?) della Merda: per chi ha voglia di un memento quotidiano cui ancorarsi.
POST SCRIPTUM, POST MORTEM
In un mio antico post citavo Roberto Freak Antoni.
È morto il 12 febbraio 2014, mentre scrivevo le righe che avete appena letto.
Ci sono rimasto un po’ male.
Gli Skiantos nel loro insieme non sono stati mai, invece, fra i miei pensieri.
Però …
Però nel loro album del 2009, Dio ci deve delle spiegazioni, c’è una canzone che si intitola: “Merda d’artista”.
[1] Gli autori sono indicati come Bernard Bazile e Piero Manzoni, gli ulteriori estremi della pubblicazione sono: Villeurbane (France), Images En Manœvres Editions, 2004. Spesso classificato come catalogo d una mostra tenutasi a Nice (Francia) quello stesso anno.
[2] Come le lingue di cui alle diciture d’etichetta delle scatolette di Merda d’artista.
[3] Così dichiara il sito ufficiale della Fondazione.
[4] Anche al Museo del ‘900 a Milano non ci sono frotte in attesa di farsi fotografare di fianco alla teca con una Merda d’artista.
[5] Una delle visioni più tristi è quella del turista con manifesto arrotolato dopo aver visitato il Van Gogh Museum ad Amsterdam: una sensazione mista di sgangherati professori di scuola media in vacanza, di studenti affetti da nerdismo infruttuoso, di zitelle e zitelli. Io ho smesso di comprare manifesti alle mostre dopo quella su Andy Warhol a Palazzo Grassi e già quell’acquisto fu eccezione: comprai infatti quello “di Batman”.
[6] Magari considerando poco Andy Warhol o Mario Schifano, allora; salvo poi scoprire (tardivamente) che gli “arbitri dell’esistenza” italiani, cioè la Famiglia Agnelli di Torino, da un lato possedevano opere murali del secondo e dall’altro anche un “Gianni Agnelli” realizzato da Mister Warhola, ed allora ciò che piace agli Agnelli piace (o meglio deve piacere) all’Italia. A scanso di equivoci: a me piacciono sia Schifano, sia Warhol, pur se non mi emozionano come Francis Bacon.
[7] Ecco perché comprai quell’assurdo prop (dal film The Great Rock ‘n’ Roll Swindle) che era una tavoletta di cioccolata con incarto “Rotten bar” oltre un quarto di secolo fa ad una mostra di opere di Jamie Reid a Londra. Reid citava l’artista italiano in quella e in altri prodotti, inesistenti: il Vicious burger, la Anarkee Ora, …
[8] Considerazione estemporanea: il downloading rischia di rarificare questo che, essendo un difetto di prodotto, è già eccezione.
[9] Ma precedente La vita agra.
[10] Cito a dimostrazione il catalogo (edito da Mazzotta) della mostra tenutasi nella mia città nel 1997: il sottotitolo è: Milano et mitologia. Tra l’altro, tutto in bianco e nero, una vera disgrazia (anche gli acromi hanno un colore).
[11] Si veda il film All The Vermeers in New York.